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Dalla fonte scritta al costume storico: i Manoscritti miniati. Parte prima sul manoscritto miniato quale fonte storica iconografica.

Indice

Il manoscritto

La miniatura

     Storia della miniatura dalla Tarda Antichità al Medioevo, stili e influenze artistiche in Occidente

     Miniatura romanica e gotica

     La realizzazione della miniatura

     I colori del Miniatore

          Il blu

          Il rosso

          Il giallo 

          Il verde

          Bianco e nero

I Manoscritti e la miniatura nell’Islam medievale

Fonti bibliografiche

     Libri

     Siti internet

         Tedesche

         Inglesi

         Francesi

         Italiane

         Siti di Enti pubblici e privati

Manoscritti, miniature e copertine

Testi consultati scaricabili online

 

Il manoscritto

Il manoscritto, dal latino manu scriptus è come dice il termine, un libro “scritto a mano” [1]. La più antica forma di manoscritto nel mondo mediterraneo, è il rotolo di papiro, usato dagli Egizi e poi adottato dai Greci e dai Romani; la scrittura era disposta nel senso della maggiore larghezza del rotolo in colonne uniformi scritte l’una accanto all’altra e il rotolo si leggeva svolgendolo in senso orizzontale, in un senso o nell’altro a seconda dell’orientamento della scrittura di una cultura. Il papiro, preservato grazie all’uso di olio di Cedro (Cedrus libani) applicato sul retro, fu utilizzato secondo Middleton [2] fino al Medioevo o quanto meno al VII secolo d.C. e non era meno comune della pergamena, ma fu presto da questa sostituito, forse per via del lungo procedimento per ottenere i fogli e utilizzato solo per documenti brevi come lettere.

 

La seconda materia, usata come supporto scrittorio è la pergamena (vellum) [3], probabilmente la più famosa e diffusa prima della carta ed era pelle animale variamente conciata, detta anche cartapecora, usata nell’antichità in quanto pregiata e durevole. Il nome deriva probabilmente da Pergamo di Misia, al centro dell’Asia Minore dove si credeva che fosse stata inventata [4]. L’etimologia del nome deriva forse anche dal fatto che erano gli ovini gli animali la cui pelle era utilizzata per ottenere questi supporti cartacei: basti pensare che per realizzare una Bibbia completa occorreva macellare qualche centinaio di pecore [5]. Anche altri animali però furono utilizzati come il vitello e il maiale [6]. L’uso della pergamena al posto del papiro è piuttosto antico e non si deve erroneamente attribuire al Medioevo: già in età classica essa cominciò a divenir usata al posto del papiro fino a soppiantarlo tra III e VI secolo d.C., e affermandosi in campo documentario nell’VIII secolo, lo stesso periodo in cui la produzione dei manoscritti subì un decisivo aumento, durante il governo carolingio. La pergamena a differenza del papiro poteva essere scritta su entrambi i lati in quanto più spessa e offriva il vantaggio di poter cancellare, tramite l’uso di spugne e pietra pomice eventuali errori o scritture ritenute inutili senza rovinare il supporto. Questo ha fatto sì che numerosi fossero i cosiddetti palinsesti [7] pervenuti sino ad oggi e il loro studio ha consentito di recuperare porzioni di testi più antichi scritti sul fondo e non del tutto cancellati dalla raschiatura [8]. Nell’Alto Medioevo era diffusa la tendenza a cancellare scritti di alcuni autori classici per soppiantarli, recuperando il supporto pergamenaceo, con scritti di altri autori ritenuti più importanti [9]. Il numero esatto di questo genere di manoscritti non è noto, specie se si considera che durante le incursioni barbariche moltissimi testi, non necessariamente palinsesti sono andati rubati, smarriti o addirittura distrutti e quindi è incalcolabile anche la perdita d’informazioni in essi contenuti.

 

I primi ottocento anni dell’era cristiana ci hanno tramandato in tutto 1800 codici manoscritti latini, mentre per il IX secolo ne sono sopravvissuti più di 7000. A beneficiare di quest’attività furono innanzitutto quegli indispensabili attrezzi di lavoro del Clero che erano la Bibbia e i codici liturgici. Per fare un esempio, lo scriptorium di San Martino a Tours produceva ogni anno almeno due Bibbie complete, che attraverso la corte imperiale raggiungevano le più lontane sedi episcopali e monastiche. L’incremento della produzione libraria non giovò soltanto alla diffusione della Bibbia e dei Padri della Chiesa. Anche gli annalisti e gli agiografi contemporanei videro apprezzata e diffusa la loro opera, come pure gli autori della classicità latina, quasi sempre sopravvissuti fino ad oggi proprio grazie ai manoscritti carolingi. Accanto ai testi sacri, la biblioteca di Carlo Magno conteneva Lucano, Terenzio, Giovenale, Tibullo, Orazio, Marziale, Cicerone, Livio e Sallustio, e molti di questi testi furono copiati a palazzo per le più importanti biblioteche monastiche. Questo interesse per la letteratura profana dell’Antichità è caratteristico dell’età di Carlo Magno, ed è fra i tratti che giustificano, almeno superficialmente, il nome di Rinascita dato al rilancio culturale dell’età carolingia; anche se, per conservare le giuste proporzioni, bisogna ricordare che tutti gli inventari dell’epoca rivelano una schiacciante prevalenza della letteratura sacra sulla profana: fra i 400 codici della Biblioteca di San Gallo erano rappresentati soltanto quattro autori pagani [10].

 

Per quanto riguarda invece la carta come supporto per la produzione libraria, il suo uso è meno antico rispetto alla pergamena ed è di origini cinesi: per ottenerla inizialmente lavoravano fibre vegetali e stracci minuziosamente tagliati e amalgamati. Gli esemplari più antichi della carta sono datati dal II al VI sec. d.C. e il segreto della sua produzione è da imputare ad alcuni prigionieri cinesi che lo avrebbero trasmesso agli Arabi. Nel IX secolo, il Califfo Harun-Al-Rashid aveva ordinato ai suoi cancellieri di Bagdad di non redigere più i documenti ufficiali su papiro o pergamena ma su carta. In Occidente, le prime testimonianze dell’uso della carta sono invece più tarde e risalgono alla Sicilia dell’XI secolo, all’epoca sotto il dominio arabo. Benché la carta prendesse sempre più piede in Occidente come materiale privilegiato per la realizzazione di libri, la pergamena non perse mai il suo primato per la produzione di codici pregiatissimi e lussuosi, nemmeno dopo l’invenzione della stampa nel XV secolo [11]. Soprattutto in ambito ecclesiastico si riteneva inoltre che la sacralità del libro, custode della parola divina, esigesse anche un decoro particolarmente sfarzoso. Questa credenza portò alla realizzazione di rilegature impreziosite da materiali di enorme valore quali oro, argento, avorio, perle, pietre preziose, sbalzi, simboli cristiani ed altri ornamenti di varia natura.

 

Il canone estetico dell’Alto Medioevo considerò piuttosto la rilegatura uno specchio che rifletteva la bellezza ultraterrena e la verità divina. Gli elevatissimi costi e l’estrema perizia artistica necessari alla miniatura dei libri liturgici documentano non solo l’alone sacrale che circondava il codice, ma anche la straordinaria munificenza dei committenti. L’involucro divenne quindi una specie di reliquiario che racchiudeva un oggetto dal valore inestimabile, proteggendolo e accrescendone ulteriormente lo splendore.

Per custodire e impreziosire i libri liturgici, specialmente Evangeliari e Sacramentari, nei primi secoli del Medioevo si usarono presumibilmente custodie simili a scrigni, di cui si conservano ancora alcuni splendidi esemplari in Irlanda. Nella maggior parte dei casi venivano però usati dei piatti [12] per svolgere questa duplice funzione e tra i più antichi esemplari si ricorda quello del Duomo di Monza, vero e proprio capolavoro di oreficeria che la Regina Teodolinda ricevette in dono dal Papa Gregorio Magno nel VII secolo.

 

Mentre nel corso del Medioevo queste sfarzose copertine rispecchiavano il valore sacrale o almeno simbolico dei codici, dagli involucri realizzati dal XV secolo in poi, nel Basso Medioevo, nell’Umanesimo e nel Rinascimento, traspare invece il crescente desiderio di protagonismo da parte del committente o del collezionista, a segnalare un’emblematica testimonianza della progressiva secolarizzazione del libro. Le rilegature in pelle, un tempo riservate esclusivamente ai libri di uso quotidiano vennero impreziosite da decori di vario tipo con ornamentazioni a stampo mentre sulla pagina iniziale e sul dorso venivano apposte oltre al titolo anche i simboli del proprietario. I ricchi collezionisti commissionavano quindi ai cartolai la creazione di copertine di valore inestimabile.

 

Nessun’opera d’arte come il manoscritto medievale, meglio descrive le diverse fasi della propria realizzazione e vi sono alcuni testi come il Manoscritto di Ambrosio, risalente alla seconda metà del XII secolo e ospitato nella Biblioteca di Bamberga [13] dove ogni singola fase è stata rappresentata in una miniatura, il che rende anche bene l’idea di come la realizzazione di un manoscritto, specialmente quelli miniati, fosse molto simile ad una catena di montaggio oltre ad essere un lavoro estremamente lungo e meticoloso. Ogni convento medievale possedeva un laboratorio attrezzato per la produzione libraria ed era noto come Scriptorium. Fino al XII secolo i libri venivano trascritti dai monaci che lavoravano in gruppo, ma col passare del tempo nella catena di montaggio si inserirono figure esterne, anche laici, specialmente artisti che provenivano da diverse classi sociali. Questo fece la loro fortuna, sia artistica sia economica: questi artisti infatti non si consideravano proprio artigiani al servizio di Dio, come i monaci e con la nascita e l’affermazione delle corporazioni e delle gilde, a partire dal XIV secolo i miniatori formarono una sorta di classe propria e non prestavano la loro opera solo ai monasteri, ovviamente i più prestigiosi per le opere con ricche miniature, ma anche alle università che a loro volta, concorrenti dei monasteri, crearono al loro interno degli scriptorium per la produzione di testi. Le figure quali lo scrivano e il miniatore divennero veri e propri mestieri, molto redditizi per quell’epoca e il loro compito era così importante che non si può più parlare di un’operazione compiuta al servizio di Dio, come accadeva per i monaci, ma di un vero e proprio lavoro pari a quello di un artista. Non ci si limitava più a scrivere o copiare un testo al fine di salvare l’opera originale, ma ci si cominciò ad adoperare per arricchire i testi con una grafia comprensibile e delle decorazioni, delle iniziali di maggiori dimensioni rispetto al resto del testo o addirittura colorare certe parole per evidenziarne il significato, mentre il resto era disposto in modo ordinato, preciso, con i paragrafi tutti ben allineati come se fossero stati scritti oggi da un computer. La trascrizione dei testi divenne non solo più ordinata e leggibile, ma anche priva di errori di ortografia e si usò maggiormente la punteggiatura. Il ruolo degli amanuensi nel Medioevo era considerato importante e per ogni lettera, punto o parola si diceva che venisse rimesso un peccato e questo è senz’altro da leggere come un’interpretazione del lavoro del monaco come di un lavoro gradito a Dio: il monaco scrivendo, copiando testi preservava la conoscenza e la sapienza che sono doni di Dio [14]. Ovviamente non erano trascritti solo testi sacri, come si è già detto, ma anche testi profani, letterari, diari, cronache, ecc. Il mestiere dello scrivano divenne col tempo anche oggetto di numerose leggende, tuttavia non bisogna perdere di vista il ruolo storico di queste figure e l’obiettivo del loro lavoro e la loro importanza. Molte miniature medievali dimostrano che allo scrivano era conferita dignità molto simile a quella dell’autore dell’opera o addirittura, nel caso di testi sacri, all’Evangelista. Se ci si fa caso, già nei Vangeli altomedievali, la miniatura che apre ogni Vangelo, reca la rappresentazione dell’Evangelista autore, ma in realtà l’uomo rappresentato con la piuma in mano e la pergamena o rotolo altri non è che il miniatore o lo scrivano. Si trattava di una sorta di autoritratto.

 

Ad un manoscritto potevano lavorare anche più scrivani, specialmente quando si trattava di opere particolarmente lunghe e complesse, aiutati dagli assistenti come nella rubricazione delle pagine (dal latino ruber, rosso) che era la decorazione degli ornamenti del rubricatore [15]. Col passare del tempo, sin dall’Alto Medioevo la decorazione dei testi, specialmente la miniatura, si affrancò sempre più dagli ambienti ecclesiastici e divenne come detto un vero e proprio mestiere. Venne coniato il termine craxare per indicare un individuo che fungeva sia da miniatore sia da scrivano mentre in lingua gotico-tedesca si definiva meljan e si riferiva sia alla scrittura che alla pittura.

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La miniatura

Storia della miniatura dalla Tarda Antichità al Medioevo, stili e influenze artistiche in Occidente

 

La miniatura è ogni tipo di decorazione figurata di un codice e si applica al decoro delle iniziali istoriate e dei bordi, anche se comunemente si crede che miniature siano solo le illustrazioni dove sono rappresentate scene e personaggi di una certa epoca. Il termine “miniatura” originerebbe da minium (il minio) un ossido salino di piombo, di color rosso, usato nella fabbricazione di vetri a piombo e per la preparazione di smalti e vernici antiruggine. Inizialmente per miniatura veniva intesa la sola decorazione o il capolettera istoriato e decorato nei capitoli di un testo, ma successivamente le rappresentazioni di scene e personaggi divennero sempre più importanti e si evolsero divenendo veri e propri quadretti di piccole o medie dimensioni in proporzione alle esigenze del miniatore o dello spazio disponibile nel libro e infatti per miniatura si intese nel corso del tempo anche una pittura di minuscole dimensioni. Così il termine miniatore avrebbe avuto origine da miniatura e quindi da minio, ma non ha alcuna correlazione etimologica col termine minuto cioè ‘piccolo’ che avrebbe origine dal latino minus, minutus. Col tempo la miniatura non fu più realizzata solo con i pigmenti vermigli, ma si aggiunsero altri colori di riempimento che diedero poi vita alle scene che tutti conoscono nei manoscritti. I testi più antichi in assoluto difficilmente sono miniati e si ricorda il celebre Libro dei Morti, in Egitto, che è riccamente decorato ai bordi del rotolo di papiro mentre sembra poco diffusa la tradizione di miniare nell’Antica Grecia. Al contrario, l’usanza di illustrare un testo non era insolito per i Romani alla fine Repubblica: essi usavano decorare con immagini colorate i loro testi e lo testimonia Plinio nella sua raccolta Historia Naturalis citando la biblioteca di Varro nel I sec. a.C. dove sarebbero stati presenti almeno 700 ritratti illustrati di personaggi e, inoltre, viene riportato dal Middleton che nello stesso testo di architettura di Vitruvio vi sono dettagliate illustrazioni [16]. In epoca romana sembra poi diffondersi l’uso delle lettere in oro su sfondo porpora che nel Medioevo si ritrovano molto di frequente, specialmente nei testi liturgici [17]. La tecnica della miniatura medievale evolse probabilmente da quella classica ma fu oggetto di un interesse particolare da parte degli stessi miniatori che ne fecero una vera e propria forma d’arte e, come si è detto prima, anche un mestiere. Mentre nei manoscritti classici le figure sono rappresentate come scene a sé senza spiegazioni, nei manoscritti medievali molto spesso sono accompagnate e legate con il testo. Nel corso dei secoli, specie nel Basso Medioevo, i manoscritti miniati presentarono sempre più frequentemente nelle scene rappresentate delle descrizioni in rosso, talvolta incluse nella cornice della scena, mentre i rigidi contorni decorati dei bordi delle pagine divennero sempre più armonici e liberi, con motivi fogliari e floreali che s’intersecavano e si fondevano addirittura con le decorazioni delle iniziali dei capitoli a loro volta decorate. Alla pari dei dipinti e degli affreschi degli edifici anche lo stile e la ricchezza delle miniature dei manoscritti divennero sempre più dettagliati al punto da essere dei dipinti in miniatura. A parte qualche eccezione dovuta alla firma autografa del miniatore, la maggior parte di loro ci sono rimasti anonimi o meglio conosciuti con il nome della loro opera preceduta dal titolo “Maestro di/del” (in francese Maître; in inglese Master of e in tedesco Meister) [18]. Obiettivo del miniatore era la gloria del codice e non la propria e dovevano studiare e aggiornarsi costantemente sulle tecniche artistiche più belle, particolari in uso, prima di mettere mano al codice [19]. II miniatori più celebri erano quasi sempre anche celebri pittori e questo vale soprattutto per quelli fiamminghi e francesi del secoli XIV e XV come i Fratelli Limbourgh o Jean Fouquet. La vera arte della miniatura non consisteva sempre nel riprodurre una certa immagine (e quindi copiarla), ma anche nell’inventare forme nuove e originali che molto spesso nei manoscritti hanno consentito di individuare tra le mille, la mano di un miniatore o di una scuola per stile, colori usati ecc. I primi manoscritti illustrati, specie quelli greci e bizantini dal V secolo d.C. sono spesso basati proprio sul principio del copiare gli originali dei secoli precedenti, dei quali per altro non sopravvive praticamente quasi nulla. I manoscritti bizantini hanno alla pari dei manoscritti arabi un percorso un po’ a sé, rispetto a quelli che furono realizzati sul continente nel corso del Medioevo. In Russia e nelle regioni dell’Est un tempo sotto il dominio imperiale di Costantinopoli, ad esempio, lo stile bizantino ancora esiste, seppure in stato di degrado e rappresenta l’ultimo legame mai interrotto con la tradizione artistica che risale alla prima parte del IV secolo d.C. durante il regno di Costantino [20]. Essendo esattamente al centro tra Oriente e Occidente lo stile bizantino risentì moltissimo degli stili provenienti da est e da ovest e la combinazione di questi permise la nascita di uno stile unico nel suo genere che fu poi distintivo della scuola d’arte bizantina [21]. Oro e porpora erano i colori più usati nei manoscritti, già presenti dall’età romana. Non solo, lo stile bizantino ebbe come particolarità l’assenza nel corso del tempo di cambiamenti anche dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 [22]. Norbert Wolf ha tentato di dare una spiegazione diversa da quella del Middleton, poiché nel V secolo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente compromise drammaticamente la produzione dei codici antichi. All’epoca delle invasioni barbariche la trasmissione dei libri segnò una battuta d’arresto e divenne per lo più appannaggio dei centri scrittori monastici. Passando in rassegna il periodo compreso tra il IV e il VII secolo, s’intuisce come l’enorme perdita di codici di quest’epoca renda praticamente impossibile ricostruirne la cronologia. Si può tuttavia ragionevolmente affermare che la rinascita dei secoli successivi attinse al prezioso patrimonio di forme e tipi dell’Antichità pagana, prima che nell’Alto Medioevo si diffondesse l’uso di forme più stilizzate. Molti dei manoscritti più antichi provengono proprio dal mondo bizantino: benché lo scisma definitivo avvenne formalmente solo nel 1054, le due tradizioni artistiche avevano cominciato a svilupparsi in direzioni diverse da molto tempo. Fu proprio Bisanzio ad assicurare la trasmissione ai posteri dell’inestimabile patrimonio artistico. Mentre il mondo occidentale si trovava in balia dei barbari, la corte di Costantinopoli assicurò la continuazione di una tradizione artistica che si caratterizzò per la particolare eleganza e l’originalità delle forme [23]. Una spiegazione non rende invalida l’altra, anzi, si confermano a vicenda e insieme confermano la reciproca influenza fino a quando quella bizantina non decise di uniformarsi a precisi standard che rimasero inalterati nel corso del tempo.

 

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Figura 1 – Schema delle influenze culturali sugli stili artistici dei manoscritti miniati dalla Tarda Antichità all'Alto Medioevo. Le zone con più colori sfumati sono quelle dove diverse culture hanno influito insieme contemporaneamente o nel corso del tempo senza che nessuna prevalesse sulle altre.

 

Mentre in Oriente si diffondeva lo stile bizantino, in Occidente, specialmente durante l’Impero Carolingio e prima ancora il Regno Capetingio andarono fondendosi tra loro diversi stili che derivavano in parte dalle tradizioni germaniche e in parte da quelle celtiche preesistenti e provenienti dal nordovest insulare: lo stile celtico e quello carolingio da cui derivò quello Ottoniano. Lo stile celtico e quello carolingio coesistettero per un certo periodo, fino a quando quello celtico non scomparve.

 

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Figura 2 – Schema degli stili presenti nell’Europa nord-occidentale

 

Middleton attribuisce l’influenza dell’arte celtica su quella germanica [24] e del Nord allo scambio culturale che avvenne durante il Regno di Carlo Magno con le Isole Britanniche, precisamente quando Re Offa di Mercia iniziò a intrattenere con il futuro imperatore delle relazioni diplomatiche e inviò quale ambasciatore l’allora Diacono della Cattedra di York, Alcuino nella prima metà degli anni ’80 del VIII secolo [25]. In realtà i territori che fanno parte dell’attuale Francia e della Gran Bretagna in epoca tardo-antica erano da poco stati convertiti al Cristianesimo, e, prima ancora, avevano subito la forte influenza della cultura romana come province dell’Impero Romano. Al contempo era presente sul territorio una cultura di tipo celtico, per cui è difficile pensare che la tradizione celtica così forte e radicata in quei territori sia stata importata e abbia rappresentato una cosa nuova per i miniatori altomedievali dell’epoca di Carlo Magno; ma si può piuttosto parlare di riscoperta di una tradizione. Molti manoscritti miniati dell’epoca di Carlo, presentano però decorazioni particolari di ispirazione celtica che erano ancora presenti nel secolo successivo durante l’Impero di Carlo il Calvo come nel caso della Bibbia di Vivien e nella Seconda Bibbia di Carlo il Calvo [26], altro caso il Codex Aureus custodito oggi presso la Bayerische Staatsbibliothek (Clm 14000) dove sono presenti decorazioni di ispirazione celtica e li si ritrova anche in altri manoscritti coevi o di poco successivi.

 http://gallica.bnf.fr/iiif/ark:/12148/btv1b8455903b/f189/79.26535827703037,2104.3664366762123,1646.664169356078,2833.6345914335852/240,413/0/native.jpg

Figura 3 – Iniziali istoriate e decorate con stile celtico nella Bibbia di Vivien. © Bibliothèque nationale de France, Latin 1, folio 91r e 330r [27]

 

Caratteristica dei manoscritti carolingi, che rappresentarono un punto cardine della rinascita culturale carolingia, sono i caratteri con cui sono scritti i testi che presentano la novità di una calligrafia “standardizzata” come quella dei nostri computer, più ordinata nella disposizione e nelle dimensioni in modo da essere leggibile a chiunque: la minuscola carolina. Rimasero in uso anche altri caratteri, come l’onciale e il semionciale [28]. Va precisato che al di là dello stile celtico presente in alcune decorazioni delle pagine, i manoscritti carolingi presentano caratteristiche molto diverse dai manoscritti insulari, specialmente la rappresentazione delle scene e dei personaggi nei Vangeli: nei manoscritti iberno-sassoni si trovano immagini fortemente stilizzate e non sempre proporzionate nelle forme del corpo, mentre nei manoscritti carolingi le figure sono molto più comprensibili e armoniose, di derivazione romana [29] e riflettono lo stile classico anche nei colori, forte è la loro somiglianza con gli affreschi di età romana. Dalla miniatura carolingia, con molti elementi d’influenza bizantina, derivò il cosiddetto stile ottoniano, che fiorì tra la metà del X secolo e la prima parte dell’XI, sopravvivendo in alcuni rari esemplari fino al 1100 e si ritrova esclusivamente nei monasteri sotto il controllo del Sacro Romano Impero e fu fortemente voluto dagli stessi imperatori e dai più importanti esponenti nelle diverse istituzioni ecclesiastiche. Qui bisogna ricordare che lo stile ottoniano deve la sua fortuna nella divisione dei territori dell’Impero tra i figli di Carlo Magno dopo la sua morte, come da suo testamento. Dalla divisione di quel grande e immenso impero, derivarono le attuali Francia e Germania che all’epoca comprendeva anche buona parte del nord Italia. I manoscritti ottoniani nacquero anche in risposta alla concorrenza dei monasteri francesi che con la Riforma Cluniacense subirono un forte impulso alla produzione di codici [30].

 

http://gallica.bnf.fr/iiif/ark:/12148/btv1b8452767n/f580/836.9084793694462,736.4675336364093,2530.8365163371072,2783.3190191545855/421,463/0/native.jpg

Figura 4 – Iniziale istoriata tratta dalla Seconda Bibbia di Carlo il Calvo (Seconde Bible de Charles le Chauve), Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 2, folio folio 285v [31]

 

Nei secoli successivi, probabilmente in conseguenza dei rapporti diplomatici e commerciali con la parte orientale e nordica dell’attuale Europa e in parte in conseguenza delle conquiste da parte dell’Impero tedesco, lo stile dei manoscritti occidentali cambiò di molto e lo stile celtico, tipico dei manoscritti altomedievali iberno-sassoni, svanì lentamente uniformandosi a quello continentale. Lo stile celtico di per sé è uno stile anch’esso unico nel suo genere e lo si ritrova spesso anche nelle decorazioni di monumenti come chiese e monasteri ma anche altri edifici di età romanica. Questo stile si contraddistingue anche per i modi di rappresentare le figure e i personaggi nei Vangeli, ma anche per le particolarissime pagine tappeto (carpet page) che si trovano in alcuni Evangeliari come quelli di Lindisfarne e il Libro di Kells, il Libro di Durrow [32] e il Libro di Deer [33].

 

Figura 5 – Pagina tappeto tratta dal Libro di Kells, Vangelo di Giovanni, Incipit, folio 292r. Immagine tratta da Wikipedia [34]

 

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Figura 6 – Incipit del Vangelo di Matteo dell’Evangeliario di Lindisfarne. Folio 27r. Fonte immagine: Wikipedia [35]

 

Questo particolare stile, molto antico, subì come molti altri stili artistici l’influenza del Cristianesimo e, infatti, risulta che i primi manoscritti che riportano le decorazioni in stile celtico risalgono, almeno i più antichi in assoluto, al V secolo d.C. quando i monaci dalla Britannia dovevano essersi spostati prima verso la Scozia e poi da lì all’Irlanda del nord. Fu la mancanza d’incursioni barbariche a consentire ai monaci di sviluppare questi manoscritti prima della conquista Normanna [36]. Seppure Seppure la maggior parte degli storici sostiene che lo stile celtico sia unico nel suo genere poiché nativo della terra in cui si diffuse, dove la cultura e la religione celtica erano insediate da prima della conquista romana; Middleton nel suo studio sui manoscritti antichi e medievali asserisce, invece, che è stata trovata una curiosa influenza di origine araba nei motivi ornamentali dei bordi delle pagine di alcuni manoscritti miniati del XII secolo, pur senza citare i titoli e lo attribuisce al tentativo di imitare i motivi ornamentali arabi dei tessuti provenienti dal continente che si diffusero verso il nord dell’Europa e furono impiegati soprattutto in ambito ecclesiastico [37] [38]. Non si spiega altrimenti la possibile influenza araba, ma sarebbe meglio dire somiglianza, poiché gli Arabi durante l’espansione dei loro territori non arrivarono mai oltre alla linea di confine naturale rappresentata dai Pirenei e non sono note incursioni via mare da parte dei pirati arabi lungo le coste inglesi o irlandesi, perché gli atti di pirateria nell’Europa insulare risultano invece a carico di Danesi, Irlandesi e Normanni. Inoltre la pirateria araba era soprattutto concentrata nel Mediterraneo, dove il flusso di navi cariche di merci era di gran lunga più ricco e interessante di quello che collegava, specie nell’Alto Medioevo, le Isole Britanniche con il resto del continente. Fu proprio il fatto di essere delle isole nell’oceano ad offrire vantaggi e svantaggi all’arte insulare britannica e al suo evolversi, specie l’isolazionismo. Anche nelle tecniche di colore e decorazione delle miniature i manoscritti celtici si distinguono poiché sembra che usassero colori molto vivaci che ancora oggi non hanno risentito troppo del passare del tempo e sono ancora vividi; l’uso delle decorazioni in oro o argento sembra essere stato introdotto molto dopo la nascita della miniatura celtica. Simile all’arte celtica era quella vichinga o, come alcuni la chiamano, arte scandinava. Gli Scandinavi [39] non erano una razza particolarmente letterata e vivevano soprattutto d’incursioni, razzie che servivano a sviluppare ai loro commerci [40]. Di proprio avevano la straordinaria abilità di lavorare i metalli e creare gioielli di bellezza unica e grazie ai loro contatti – dovuti più che altro alle loro spedizioni e invasioni – entrarono in contatto con una grandissima quantità di culture nel Mediterraneo, specie quella araba e quella bizantina e nell’Europa Insulare vicina, quindi la Britannia e l’Irlanda e l’Islanda; e non mancarono anche contatti con il continente, dove era grande l’influenza germanica. Con una storia che ricorda l’evolversi dell’arte bizantina quella scandinava sembra essere un ibrido in continua evoluzione con marcati caratteri di arte celtica, dovuti probabilmente alla stretta vicinanza con le isole britanniche. L’arte vichinga conobbe il suo massimo splendore nell’Alto Medioevo, fino al secolo X almeno. Alla pari dei disegni celtici anche quelli vichinghi erano fortemente stilizzati e inizialmente erano caratterizzati da motivi animali astratti e i motivi ornamentali vegetali entrarono solo a partire dal tardo X secolo in quanto considerati di scarsa importanza dagli artisti scandinavi. A partire da quel periodo, specie nello stile Mammen il motivo fogliare prese a combinarsi a quello animale [41]. Tali combinazioni sono osservabili anche nei manoscritti Iberno-sassoni dei secoli dall’VIII al X. Lo stile vichingo o scandinavo rimase tuttavia più apprezzabile nei gioielli e nei manufatti metallici che nei manoscritti.

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Miniatura romanica e gotica

La miniatura romanica fiorì tra XI e XIII secolo ed ebbe una produzione artistica tanto articolata da rendere l’analisi di ogni variante regionale irrimediabilmente riduttiva. Nella miniatura romanica confluirono infatti tradizioni e influssi di varia provenienza. Si caratterizzo così per la sua crescente specializzazione regionale: la sua produzione straordinariamente varia si concentrò in Francia e in Inghilterra, specialmente a Winchester e Canterbury. Inoltre nel XII secolo cominciarono ad emergere i primi segni della secolarizzazione e profonde trasformazioni culturali che avrebbero inciso radicalmente sulla produzione libraria occidentale. Oltre alla miniatura tradizionale vennero anche messe a punto nuove tecniche che in epoca romaica raggiunsero il loro apice: lettere ornamentali e iniziali figurate e arricchite da elementi fogliacei. All’originalità di questo linguaggio contribuirono anche energetiche pennellate di colore [42].

 

La miniatura gotica, invece, nacque almeno mezzo secolo dopo l’architettura, la scultura e la pittura vetraria gotica: le prime testimonianze risalgono all’arte francese del XII secolo, come documenta il Salterio di Ingeborg conservato nel castello di Chantilly. Dalla Francia, terra divenuta celebre per le magnifiche cattedrali gotiche, si diffusero infatti numerosi impulsi innovativi, che intorno al 1220 confluirono nella miniatura inglese. I codici di questo periodo documentano in modo emblematico la crescente secolarizzazione della cultura occidentale. Con la nascita delle prime università si diffusero nuovi centri del sapere. La progressiva secolarizzazione portò alla ribalta la committenza nobiliare, che col passare del tempo surclassò [43] il mecenatismo ecclesiastico. Durante il regno di Luigi IX il Santo (reg. 1226-1270), l’arte francese si assicurò il primato assoluto, che mantenne fino all’inizio del XV secolo. La Bibbia dei Crociati esemplifica in modo emblematico il felice sodalizio tra miniatura e pittura vetraria. Dal XIII secolo, in Francia, cominciarono a diffondersi i nomi dei miniatori, che come si è detto prima ci sono rimasti per lo più anonimi poiché non tutti solevano firmare la propria opera. Nel XIV secolo la più celebre officina gotica, la bottega parigina in cui lavorò anche Jean Pucelle dal 1320 al 1334 documenta gli influissi della pittura italiana del trecento sui miniatori d’oltralpe, in particolare per quanto riguarda gli esperimenti prospettici, la spazialità e la tecnica del grisaille [44]. Nel XIII e XIV secolo anche la miniatura della corona inglese, titolare di vasti territori in Francia, beneficiò dell’incontro di diverse correnti artistiche. Così in Francia e in Inghilterra fiorì lo stile fleuronnè (fiorone), un tipo di decoro a viticcio in filigrana che nasce nelle iniziali, per poi estendersi anche sui margini come una serie di delicate figure e scene. Anche durante il regno di Carlo V (fine del XIV secolo), la miniatura francese visse un periodo di straordinario splendore: sotto la sua egida [45] molti artisti stranieri, specie italiani e olandesi, si recarono a Parigi, dove diffusero lo stile delle loro miniature a moduli più naturalistici. Intorno

Intorno al 1400 si creò una straordinaria simbiosi tra il gotico internazionale e quello della corte francese, tra le tecniche innovative del Trecento italiano e la rappresentazione naturalistica della realtà. Si ricordano i già citati Fratelli Limbourg, il Maestro di Boucicant, il Maestro di Bedford. Accanto agli impulsi artistici locali, l’influenza italiana e francese svolse un ruolo fondamentale nella straordinaria fioritura della miniatura presso la corte di Praga dell’Imperatore Carlo IV che visse a lungo a Parigi. Per tutto il secolo XV il mecenatismo del ducato di Borgogna, tra il 1384 e il 1477, favorì la rinascita di una cultura cortese-borghese di ineguagliabile splendore. La raffinatezza e il lusso da Mille e una notte che regnavano alla corte di Borgogna divennero celebri in tutta Europa. nei laboratori di molti pittori alto-olandesi, estremamente sensibili all’arte burgunda, vennero eseguiti capolavori indimenticabili che portano la firma di artisti del regno di Jean Van Eyck e Blarthelèmy Van Eyck: le loro geniali innovazioni nella rappresentazione della luce e nell’attenta osservazione della natura prefiguravano già i capolavori della pittura fiamminga. Colonia svolse il ruolo di crocevia tra le zone della Renania centrale e settentrionale e l’Olanda, come documentano alcuni manoscritti. Tra il 1470 e il 1520, all’epoca in cui il Rinascimento italiano era già alle porti nelle regioni a nord delle Alpi, le botteghe fiamminghe di Bruxelles, Gand e Bruges e di numerose altre città non produssero soltanto opere di lusso, soprattutto ricchi libri d’ore destinati a ricchi committenti, ma anche una vastissima tipologia di libri per il più articolato mercato borghese. Fiorì in quel periodo anche la tecnica del trompe-l’oeil [46].

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La realizzazione della miniatura

 

La realizzazione della miniatura avveniva come per il manoscritto, attraverso vari passaggi, e il più meticoloso era sia la realizzazione del disegno (sinopia [47]) sia sia la creazione dei colori; per questo occorreva procurarsi pigmenti di varia natura: animali, vegetali o minerali che venivano miscelati con sostanze leganti come albume o gomme vegetali dopo essere stati minuziosamente triturati in modo da ottenere una pasta fluida a sufficienza per poter essere spalmata sulla superficie da colorare. Molto spesso i colori più pregiati e quindi costosi venivano acquistati da mercanti che le importavano da terre lontane come per esempio il celebre azzurro lapislazzuli [48] o l’indaco (Indigofera tinctoria, Fabaceae) [49]. In epoca antica il riempimento a colori era fatto con pigmenti tempera [50], opachi e pesanti e eccessivo era l’uso del piombo come addensante per i colori, in particolar modo il giallo (giallo di piombo e stagno [51]) ed il bianco (detta anche biacca [52]). Altro pigmento utilizzato sin dall’antichità era l’ocra rossa [53], e fino al IV secolo d.C. fu utilizzata l’ocra gialla al posto dell’oro. Per Per le tonalità di rosso era utilizzato oltre al minio, anche il kermes, ottenuto da un insetto noto anche come Cocciniglia (Dactylopius coccus) e la porpora, ottenuta dal mollusco del Murice (Bolinus brandaris) [54]. AA partire dal V secolo d.C. entrò in uso la doratura, realizzata non con lamine ma con oro fuso ed era impiegata soprattutto per definire alcuni dettagli dei paesaggi e degli ambienti, mentre la porpora era impiegata per alcuni arredi disegnati [55]. Fu in questo periodo che, parallelamente alla caduta dell’Impero d’Occidente, venne a decadere anche l’arte della miniatura mentre in Oriente sopravvisse ed ebbe un periodo di particolare splendore in epoca giustinianea.

 

Caratteristica della miniatura sin dall’Alto Medioevo è la doratura che era in sé, a sua volta, una vera e propria arte e lo è tutt’ora quando viene impiegata per la riproduzione di fedeli fac-simile o per altre tecniche artistiche. Come prima cosa veniva coperto il fondo del foglio come un composto di gesso, colla di pesce e miele che fungevano da collante e successivamente veniva applicata una lamina d’oro, successivamente soggetta alla lucidatura. L’applicazione dell’oro musivo era più semplice. Difficili sono da trovare oggi, invece, le miniature rappresentate con disegni a penna o a china.

 

Circa invece il riempimento a colori delle miniature, come è stato già scritto, era necessario procurarsi i pigmenti di varia natura e varia origine, al fine di miscelarli e poi applicarli alle immagini che si desiderava colorare, esattamente come avveniva per i pittori. Sarebbe più corretto dire, come sostiene anche Middleton [56] che in realtà sin dall’età antica, ma soprattutto nel Medioevo, erano i tre colori primari ad essere utilizzati più di tutti e miscelati tra loro per ottenerne dei nuovi, resi più chiari o più scuri dall’impiego di altre materie, quasi sempre di origine minerale. Inoltre era possibile ottenere più di una sfumatura di un colore, a seconda di come lo si miscelava o di come si lavorava la materia prima. Oltre ai colori già citati, la maggior parte delle sfumature dell’attuale cartella colori si otteneva esclusivamente per miscelazione o per estrazione dalle materie prime che erano note per produrre i pigmenti. Uno schema può aiutare a conoscere meglio i colori impiegati da miniatori e artisti del passato. Non è noto se, alla fine del riempimento che era la fase finale della realizzazione della miniatura, fossero applicate delle sostanze per impedire il deterioramento dei colori e permettere la conservazione delle immagini visto che alcuni manoscritti oggi presentano ancora colori brillanti mentre altri hanno immagini sbiadite e talvolta incomplete o irrimediabilmente rovinate e incomprensibili [57]. Pare che l’ultimissima fase consistesse nella laccatura, che veniva applicata però solo per le scene miniate e l’oro, ma non sempre, probabilmente solo per i manoscritti più pregiati, trattandosi non solo di una sorta di resina, ma anche di un pigmento colorato e trasparente che si ricavava da un insetto.

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I colori del Miniatore

Il blu

Il colore blu, chiamato in araldica ‘azzurro’ è stato tra i pigmenti più usati e tra i più resistenti. Ottenuto quasi sempre dal Lapislazzuli o dall’Indaco, era un prodotto per lo più di importazione in Europa, proveniente soprattutto dai Paesi arabi come la Persia. Middleton accenna anche all’azzurrum transmarinum (attuale blu oltremare) [58] e da una breve descrizione del processo di ottenimento dal minerale del Lapislazzuli. La pietra madre, già difficile da trovare e rarissima, era sbriciolata minuziosamente facendo in modo da separare le particelle blu dal resto della pietra e successivamente erano effettuati vari lavaggi per evitare di perdere anche le più piccole particelle. In ultimo, prima dell’utilizzo la polvere poteva essere calcinata col calore [59], procedura per lo più moderna, utilizzata raramente in epoca medievale poiché comprometteva la profondità e la brillantezza del colore. Il Il Lapislazzulo(i) è in vero l’antica denominazione della Lazurite, oggi usata per indicare un'associazione di vari minerali del gruppo della sodalite (con prevalenza della lazurite), di colore azzurro-oltremare intenso. Il suo nome deriva dal latino medievale lapis lazüli 'pietra del lazülum’ a sua volta di origine araba ‘lázuward’ che significa 'azzurro'. Il Lapislazzulo è composto da lazurite e calcite ma anche da pirosseni [60] anfiboli [61], miche [62] e pirite [63]. La pietra è di colore azzurro oltremare intenso, anche se le pietre femmine hanno una colorazione più tenue; presenta una lucentezza vitrea ed è opaca o appena traslucida ai bordi. Si trova soprattutto in Tibet, Iran e Cina e in piccolissime quantità anche in Italia nelle regioni vulcaniche [64]. È noto sin dall’Antichità e impiegato sia nell’oreficeria sia nell’arte come prezioso pigmento. Essendo molto raro, era di per sé molto costoso e Middleton sostiene che il valore del pigmento fosse venduto a peso d’oro, poiché oltre ad essere raro per pitturare gli artisti ne comprassero quantità considerevoli. Era inoltre utilizzato anche come pigmento per tingere alcuni tessuti, alla pari dell’indaco e a maggior ragione aveva un costo elevato. Il lapislazzulo è stato ampiamente utilizzato anche nell’arte, negli affreschi. Infine il lapislazzulo era utilizzato per ottenere impasti (strati di colore) e smalti. Il blu, come si è accennato, era ottenuto anche tramite la pianta nota come Indigofera tinctoria, I. argentea e I. arrecta (Papilionacee), ossia l’indaco, una delle principali sostanze vegetali coloranti. La pianta è di origine asiatica, specie indiana da cui deriverebbe il nome: dal lat. Indïcum (folium): '(foglia) indiana' poiché è nelle foglie della pianta che si trova la sostanza colorante. Il pigmento si trova sotto forma di glicoside e oggi è ottenibile tramite procedimento di sintesi chimica. Il pigmento viene ottenuto per macerazione delle foglie in soluzione alcalina (tramite calce o ammoniaca). Avvenuta la fermentazione, si esegue una filtrazione e si ottiene un precipitato che però non è puro: può infatti contenere tracce di rosso d’indaco (indirubina) non oltre il 15%; il bruno d’indaco (1-5%) e una percentuale residua di minerali, gomme e acqua. Occorre oggi un’ulteriore purificazione per ottenere la pura polvere azzurra, che si presenta con aspetto cristallino a riflessi metallici, insolubile in acqua, alcool ed etere ma non al cloroformio. È altamente resistente alla luce (che tende a deteriorare i colori), al lavaggio, agli alcali e agli acidi e quindi viene molto usato per la colorazione di tessuti e filati. Il bagno oggi utilizzato prevede l’utilizzo di bianco d’indaco che si ottiene mescolando la polvere d’indaco in soda o calce (molto usata nel Medioevo) e il pigmento si fissa sulla fibra diventando azzurro per ossidazione all’aria. In epoca medievale l’indaco non era usato solo in ambito tessile ma anche come pigmento per la pittura. L’indaco differisce leggermente dall’azzurro lapislazzuli in quanto più scuro e inoltre può essere impiegato per ottenere altre colorazioni, a seconda della sostanza aggiunta, come: rossi (tra cui il rosso carminio e il porpora), verdi e azzurri tra cui l’Azzurro di Sassonia. Per ottenere tonalità di azzurro, in modo particolare il ciano (secondo alcune fonti noto come Azzurro Fiordaliso) era utilizzato anche il rame, specialmente le paste vitree a contenuto rameico, note sin dall’antichità. Lo smalto ciano era impiegato soprattutto nelle iniziali dei manoscritti. Un altro tipo di blu noto anche come Azzurro tedesco o Azzurro della Magna, un carbonato del rame, come riportato da Middleton [65], era usato dai miniatori come alternativa al Lapislazzuli ed era meno pregiato oltre ad essere usato per adulterare le polveri di lapislazzulo, ma tale frode era facilmente rivelabile tramite calcinazione e lasciava sfumature nerastre. Esistono inoltre altri pigmenti, ma erano usati più che altro nella tintura dei tessuti e qui ci si limiterà ad indicare le principali fonti dei pigmenti dei colori più usati nella miniatura.

 

Figura 7 – Evangelista Matteo con manto azzurro. L’immagine è tratta dall’Evangeliario di Saint-Médard de Soissons, IX secolo. © Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 8850, folio 17v [66]

 

Archangels

Figura 8 – Arcangeli. Immagine tratta dal Carmina Regia, attribuita a Pacino di Buonaguida [67] mentre il resto è di Convenevole da Prato [68]. Il manoscritto è attualmente custodito presso la © The British Library. Royal 6 E IX f. 7. Immagine distribuita con Pubblico Dominio [69]

 

©Photo. R.M.N. / R.-G. Ojéda ©Photo. R.M.N. / R.-G. Ojéda

Figura 9 – Due miniature a pagina intera del celebre manoscritto Très Riches Heures del Duca di Berry, del XV secolo (1411-1416). Le miniature sono tratte dal Ciclo dei Mesi e fanno riferimento ai mesi di Aprile (sinistra) e Settembre (destra). Le miniature sono state realizzate dai Fratelli Limbourgh e il blu che spicca ancora oggi luminoso e intenso sugli sfondi e sulle vesti è proprio il blu ultramarino tratto dal Lapislazzulo [70]. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65 f. 4v. Fonte immagini: Wikipedia [71]

 

L’azzurro era utilizzato soprattutto negli sfondi delle ambientazioni e nelle vesti dei personaggi di rango più alto, che in genere vengono identificati nei committenti ricchissimi di questi preziosi manoscritti, ma era molto utilizzato anche come colore dei mantelli di Santi e della Madonna sia nella miniatura sia nell’arte, italiana e straniera dei secoli dal XIV e XV. In ultimo, essendo l’azzurro un colore araldico, scelto per la sua affinità col colore del cielo era utilizzato per indicare e simboleggiare tutte le virtù più elevate sia spirituali sia cavalleresche.

 

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Il rosso

Seppure se ne è già accennato nei paragrafi precedenti riguardo alla miniatura, il rosso è un altro dei colori primari più utilizzato nei manoscritti e nelle miniature, ma soprattutto nelle decorazioni delle pagine sin dall’Antichità [72]. Come Come il blu aveva origini sia minerali sia vegetali, ma anche animali come nel caso della porpora, ricavata dal Murice, che più che un rosso è una colorazione simile al viola ma dal quale, tramite diversi procedimenti era possibile ottenere altre colorazioni, anche per la tintura dei tessuti, come il blu e i rossi [73]. Moltissimi pigmenti rossi erano a base di piombo e di ferro, ma anche mercurio specie quelli minerali e il primo usato come addensante. Oltre al minio (Ossido di Piombo; Pb3O4) e alla porpora (prodotta dal Murice) era utilizzato anche il Cinabro (Solforato di mercurio; HgS) che viene anche chiamato Rosso vermiglio o semplicemente Vermiglio. Il minio, già citato (Ossido di Piombo; Pb3O4) è stato tra i principali pigmenti usati sin dall’Antichità e si presenta come una polvere pesante molto densa di varie gradazioni di colore, dall’arancio al rosso vivo, gradazioni dovute alla percentuale di particelle estranee presenti. Le principali riserve si trovano nel Baden [74] e in Vestfalia, ma anche in Scozia. Si può ottenere anche tramite calcinazione del Piombo, pratica molto probabilmente già nota in epoca medievale. Come altri pigmenti a base di Piombo è insolubile all’acqua e tossico [75].

Veniva impiegato anche nelle vernici e negli smalti di rivestimento. Oltre al minio di piombo esistono anche quello di ferro e alluminio, meno tossici ma ugualmente molto densi e usati come pigmento e che hanno i due elementi succitati come base al posto del piombo e il loro utilizzo in epoca medievale non è da escludere essendo il territorio europeo ricco di queste risorse. Il minio era usato dai miniatori soprattutto nelle intestazioni e nei capolettera di un paragrafo.

 

Figura 10 – Capolettera di paragrafi in un Vangelo del VIII secolo. sono numerosissimi i capolettera e le iniziali istoriate decorate di rosso o oro di manoscritti dell’Alto Medioevo. L’immagine è tratta da Evangelia, © Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Latin 263, folio 126r [76].

L’altro pigmento era invece il Cinabro o Vermiglio, un pigmento minerale, presente in diverse rocce e si presenta in masse granulari, più che in cristalli. Le principali riserve sono situate in Italia, Spagna e Russia. Dal Vermiglio deriva anche il Vermiglione, termine usato come sinonimo dello stesso colore, ma che in realtà è una sofisticazione ottenuta per aggiunta di zolfo e si ottiene un colore tendente allo Scarlatto, ottenuto anche dalla lavorazione del pigmento indaco e utilizzato anche nell’arte tintoria tessile. Tra i derivati del ferro, specie gli ossidi si ottenevano anche altri pigmenti di colore rosso, specie la cosiddetta Rubrica o Rosso indiano, usata dal Rubricatore per decorare le pagine. Un altro pigmento rosso ferroso è l’Ocra rossa (Ossido di ferro; Fe2O3), già citata e che sarebbe una variazione della Rubrica e della Sinopia usata, quest’ultima, per le bozze preparatorie degli artisti e nota anche come Rosso di Sinope [77]. Dai pigmenti ferrosi rossi era poi possibile ottenere anche altre tinte come marrone, giallo e nero. Si ricordano i citati Murice e Kermes, tra i pigmenti di origine animale che davano colorazioni rosse. Il Kermes, nome di origine araba, è ottenuto dalla Cocciniglia che vive soprattutto sulla pianta del Leccio (Ilex gen.), un genere della famiglia della Quercia (Quercus gen. Fagaceae) delle regioni della Siria e del Peloponneso. Si tratta di un rosso molto intenso e acceso, usato anche per tingere i tessuti. Il Kermes era noto anche col nome latino di rubenm de grana, quando era utilizzato per tingere i tessuti [78]. Da un altro insetto noto anche come Laccifer lacca (secondo altre fonti è la Kerria Lacca, una specie di cimice) è ricavato un pigmento rosso, meglio una resina gommosa, nota anche come Lacca rossa o semplicemente Lacca, citata anche dal Cennini e usata nelle miniature e nell’arte italiana nel XV secolo, soprattutto sull’oro.

 

Figura 11 – Evangelista Matteo. Notare la presenza del rosso sul cielo dello sfondo, alcuni arredi e il contorno della miniatura. Il rosso è molto utilizzato nelle decorazioni e nelle miniature di questo manoscritto. Immagine tratta dall’Evangeliario detto di Loisel, IX secolo. © Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 17968, folio 15 [79]

 

Altro rosso era il Rosso Robbia o semplicemente Robbia, dall’omonima pianta: Rubia rinctorium (Rubiaceae), anch’essa usata in campo tessile. Altri pigmenti rossi sono il Brasile (da cui viene il nome dell’omonimo Stato) noto nel Trecento come Verzino e citato anche da Cennino Cennini come derivato non della pianta della Sequoia ma come derivato rosso del Lapislazzulo [80] [81]. In realtà si tratta di due pigmenti diversi con diversa origine che però hanno tonalità molto simili. Altro composto naturale, abbastanza ubiquitario nelle specie botaniche con frutti rossi e viola sono le antocianine che pur non essendo conosciute sino all’avvento della chimica moderna, sono utilizzate nella loro forma naturale sin dall’età Romana. Da Vitruvio a Cennino Cennini viene citato l’uso di frutti e parti di piante contenenti queste sostanze sia per la produzione di acquerelli per le decorazioni artistiche sia nella tintura dei tessuti [82].

Figura 12 - Madonna con bambino tra gli angeli e i Santi. XXVIII Biennale dell'Antiquariato (2013). Collezione Moretti [83]

Nell’opera di Cennino Cennini Madonna con bambino tra gli angeli e i Santi il rosso spicca in modo particolare nel vestito della Madonna e nelle ali degli angeli che sovrastano la scena centrale, così come parte del pavimento della stanza dove oro e rosso del tappeto formano motivi decorati di draghi e ornamenti vegetali.

 

Figura 13 – Forma base di un’antocianina. Si tratta di glicosidi che variano nella formula e nella composizione a seconda della specie da cui provengono. Il loro nome deriva dal greco anthos + kyanos che significa blu scuro, ma danno origine a colorazioni rosse

 

Il Sangue di Drago, un particolare tipo di rosso carico e denso era ottenuto dalla Dracaena draco e dalla Dracaena cinnabari (Liliaceae) originarie delle Canarie [84]. Il pigmento si ricava dalla resina della pianta. Altra specie che fornirebbe lo stesso colore è la Daemonorops draco (Arecaceae), insieme al Calamo aromatico di cui viene usata la radice (Acorus gen.) e allo Pterocarpus (Fabaceae) di origini africane e asiatiche.

 

©Photo. R.M.N. / R.-G. Ojéda

Figura 14 – Processione di San Gregorio. Notare l’intensità del colore rosso del mantello papale e delle vesti cardinalizie. L’immagine è tratta dalle Très Riches Heures du Duc de Berry. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65, folio 71v. Fonte immagini: Wikipedia [85]

 

©Photo. R.M.N. / R.-G. Ojéda

Figura 15 – Papa e due cardinali. L’immagine è tratta dalle Très Riches Heures du Duc de Berry. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65, folio 71v. Fonte immagini: Wikipedia [86]

 

Il rosso normalmente veniva usato oltre che come inchiostro per testi e capolettera, nelle decorazioni e per quanto riguarda strettamente le miniature e le scene rappresentate nei vari tipi di manoscritto, era utilizzato per rappresentare l’abito corale cardinalizio [87] come nelle miniature mostrate sopra; ma era anche molto usato nelle vesti nobiliari e mantelli soprattutto femminili, specialmente nei secoli XIV e XV e ciò avveniva anche nell’arte italiana e fiamminga dello stesso periodo storico.

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Il giallo

Il giallo che in araldica identifica l’oro, fu ampiamente usato in epoca medievale sia nella miniatura sia nell’arte, come colore primario per ottenere nuovi colori e anche singolo creando meravigliosi contrasti che ancora oggi possiamo ammirare. Come per i colori rosso e blu, anche nel caso del giallo, le origini dei pigmenti potevano essere varie. Si ricorda tra quelli di origine minerale l’ocra gialla, un composto ferroso ed il principale usato dai miniatori. Di per sé l’ocra è il nome generico col quale vengono indicate le varietà terrose di ematite (rosse) e limonite (gialle). Si trovano in natura alcune pietre che presentano ocra di colore giallo-marrone nota anche ocra d'antimonio (varietà di stibiconite) e ocra di molibdeno (varietà di molibdite). Lo zolfo è tra i principali componenti dei pigmenti di colore giallo, Cennini ne parla anche nel suo trattato col nome di Orpimento (Solforato di Arsenico; AsO12S33-) che risulta un giallo particolarmente intenso e brillante, molto più del giallo limone. Sempre di origine inorganica si ricorda il giallo di piombo o piombo giallo, o ancora, Litargirio [88] (un ossido del piombo) che però tende all’arancione e infatti la polvere si presenta aranciata. Era utilizzato soprattutto in pittura ad olio nel XIV e XV secolo. La famosa Terra di Siena che prende il nome dalla città è una varietà di giallo piuttosto scura e così la sua varietà ancora più scura, quasi marrone nota come Terra di Siena bruciata, ottenuta per combustione della prima[89]. Le fonti di origine vegetale da cui è possibile ottenere pigmenti gialli sono tantissime e la famiglia chimica cui appartengono questi pigmenti è nota come flavonoidi da flavone, dal latino flavus che significa ‘giallo’. si tratta di pigmenti purtroppo poco resistenti rispetto ai blu ed ai rossi. Responsabile del colore giallo nelle piante è il cromatoforo [90] del flavone. Sono presenti soprattutto nelle foglie, ma sono stati trovati anche in altre parti della pianta come radici, corteccia e fiori.

 

Figura 16 – Struttura chimica del flavone

 

I due composti più importanti di colore giallo sono la apigenina e la luteolina che nelle piante si trovano in forma glicosidica [91]. La prima si trova in moltissime specie di diverso genere e famiglia botanica e tra le fonti più ricche si ricordano il sedano (Apium graveolensis, Apiaceae), la camomilla (Matricaria, Asteraceae) ed il prezzemolo (Petroselinum crispum, Apiaceae), presenti sul continente europeo e anche sul nostro territorio, un tempo impiegate anche per la tintura dei tessuti. La seconda, la luteolina, si trova soprattutto nella specie Reseda luteola (Resendaceae), una pianta originaria del Nord Africa, Europa e Asia occidentale. Anche i flavonoli, derivati sempre dal flavone sono tra i principali pigmenti di color giallo presenti in natura e sono molto diffusi anche se più concentrati in alcune specie rispetto ad altre: in modo particolare la ruta comune (Ruta graveolens, Rutaceae), il grano saraceno (Fagopyrum esclulentum, Poligonaceae) e il sambuco (Sambucus nigra, Caprifoliaceae), la senna (Cassia senna, Fabaceae), l’equiseto (Equisetum, Equisetaceae), l’ortica bianca (Lamium album, Lamiaceae) e la bistorta (Persicaria bistorta, Poligonaceae). Si tratta di specie presenti sul nostro territorio, coltivate e usate sin dall’antichità anche per le loro proprietà nutritive e curative, ma anche come fonte di tinture per il settore tessile e artistico, oltre ad essere talvolta anche fonti per altri pigmenti, ricavati come nel caso del sambuco, dal frutto maturo. Alcune specie sono la Bacca persiana (Rhamnus spp. Rhamnaceae), lo Scotano giovane (Cotinus coggygria, Anacardiaceae), la Verga d’oro (Solidago virgaurea, Asteraceae), la pelle della cipolla (Allium cepa, Liliaceae), la serratula (Serratula tinctoria, Asteraceae), Ginestra minore (Genista tinctoria, Fabaceae), la calendula (Chrysanthemum spp. Asteraceae), margherita (Anthemis tinctoria), la dittinella (Daphne gnidium, Thymelaeceae), lo zafferano (Crocus sativus, Iridaceae) la cui molecola colorante, la crocetina non è un flavonoide ma un carotenoide; della famiglia omonima i cui pigmenti sono a loro volta impiegati per la realizzazione di pigmenti arancioni [92].

 

©Photo. R.M.N. / R.-G. Ojéda

Figura 17 – Pentecoste, tratta dalle Très Riches Heures du Duc de Berry. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65 f. 79. Fonte immagini: Wikipedia [93]

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Il verde

Anche il verde è un colore che ricorre frequentemente sia nelle scene delle miniature sia nell’arte ed era altresì impiegato anche nella tintura tessile. Il verde è un colore presente in natura ovunque, soprattutto nelle foglie che producono clorofilla, il pigmento verde per eccellenza e si trova esclusivamente nelle foglie delle piante. Rispetto agli altri, il colore verde utilizzato per la produzione dei colori necessari al miniatore e all’artista era soprattutto di origine minerale, cioè proveniva da pietre contenenti soprattutto rame (Cu). Sono pochi i pigmenti verdi conosciuti di epoca antica e medievale: la terra verde o Terra di Verona, un colore già noto a Greci e Romani e utilizzato sino al Rinascimento di origine minerale, contenuto soprattutto nella glauconite, a sua volta del gruppo della mica, già citata nella parte dedicata al blu ed è composta principalmente da silicati di ferro e potassi, ma anche manganese e rame. Dal rame prende nome l’omonimo verderame, in vero il carbonato del rame ottenuto per lavaggio del rame metallico con aceto o per esposizione al vapore dell’aceto in un vaso chiuso come descritto anche da Teofilo [94]. Fu molto utilizzato dai miniatori e dagli artisti durante il XV secolo. Un altro verde è il Prasiniun ottenuto per mescolanza del gesso in polvere con la parte verde del porro (Allium ampeloprasum, Liliaceae). Cennino Cennini raccomanda anche la mescolanza di zolfo, arsenico e indaco per ottenere una particolare tonalità di verde e sempre in epoca medievale era utilizzata anche la mescolanza di ocra gialla con smalto blu al fine di ottenere il verde. In arte il verde è un colore che ricorre piuttosto spesso, specie a partire dal XIV secolo sia in Italia che nell’arte straniera, specie quella fiamminga. Il verde è utilizzato soprattutto nelle ambientazioni paesaggistiche ma anche nelle vesti e coloranti naturali verdi erano utilizzati anche per la tintura dei tessuti.

 

Figura 18 – Maggio. Scena con paesaggio primaverile e una corte con dame e cavalieri a cavallo, durante una battuta di caccia. Si noti la brillantezza dei colori e del verde. Tratto dalle Très Riches Heures du Duc de Berry. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65, f. 5v. Fonte immagini: Wikipedia [95]

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Bianco e nero

Si tratta dei due colori forse più importanti per i miniatori perché insieme ai colori primari e a quelli ‘speciali’ già presenti in natura, servivano per ottenere le tonalità più chiare o più scure dei colori e creare così giochi di luci ed ombre e sfumature nei manoscritti, specie le vesti e i paesaggi. La maggior parte dei pigmenti bianchi, come accennato in parte all’inizio, erano a base di piombo; si ricordano in particolar modo la biacca (bianco di piombo), il bianco di San Giovanni (carbonato di calcio) ottenuto riducendo in polvere il marmo lavato in abbondante acqua pura. Anche la gomma arabica era utilizzata per ottenere il colore bianco e non ultimi i gusci d’uovo triturati insieme al gesso e si otteneva un tono di bianco più freddo di quello di San Giovanni.

 

Figura 19 – Febbraio. Paesaggio innevato e scene di vita quotidiana in inverno. Tratto dalle Très Riches Heures du Duc de Berry. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65, f. 2v. Fonte immagini: Wikipedia [96]

 

Il nero era il colore più difficile da ottenere in natura anche se le fonti non mancano, specie quelle inorganiche. Una delle fonti più facili da cui ricavare il nero era il carbone seppure è bene precisare che quello ottenuto dalla combustione di materia organica non è puro, ma contiene anche delle ceneri per cui era necessario un processo di purificazione e una volta ottenuto il carbone puro, esso poteva essere utilizzato sia come riempimento sia per realizzare le bozze dei disegni per pittori e miniatori ma anche come riempimento. In realtà il nero proveniente dal carbone era noto sin dall’antichità ed esistevano termini diversi a seconda dell’uso. I Romani chiamarono atramentum il nero usato per qualsiasi uso; l’atramentum librarium era usato invece per scrivere mentre l’atramentum sutorium era usato dai calzolai per tingere le pelli e infine vi era l’atramentum tectorium (o pidorium) usato specificamente per la pittura ed era una specie di vernice. Il nero poteva essere ottenuto anche da derivati del ferro e miscelato al carbone nero dava origine a un pigmento molto pesante e denso usato dal XII al XIX secolo. In natura esistono anche sostanze vegetali da cui ricavare pigmenti neri o affini al nero e il più celebre di tutti è senz’altro la galla della quercia, nota per le sue proprietà anche medicamentose ed antiveleno dovute ai tannini in essa contenuti. La galla non è una parte propria delle specie su cui si forma, ma è un’aberrazione che si sviluppa su foglie e rami, radici e tronco di alcune specie ed è prodotta per parassitosi fungina di batteri, insetti, specie acari. È una sorta di ‘cancro’ delle piante e non tutte le galle sono uguali, dipende dal parassita che le causa, il più diffuso è l’imenottero Andricus quercusalicis. Le galle, ricchissime di tannini, possono essere fatte reagire con solfato ferroso per produrre inchiostri, procedimento probabilmente molto noto in epoca antica e medievale. Quando ottenuto dalle galle di quercia per reazione con solfato di ferro o vetriolo, l’inchiostro nero prendeva il nome di eucaustum e fu molto utilizzato dai miniatori medievali. Gli inchiostri neri erano solitamente utilizzati miscelati con la gomma arabica. Nell’arte tintoria tessile, invece, erano usate soprattutto le galle e il nero era tra i colori più costosi e viene riprodotto sia nella miniatura nell’abbigliamento e in alcuni accessori e così pure avviene nell’arte italiana e fiamminga dei secoli del Basso Medioevo.

 

Figura 20 – Agosto, scene di caccia e vita di campagna. Si noti il nero dell’abito della dama a cavallo e quello del cavaliere più a sinistra, quasi nascosto dalla figura vestita di blu. Tratto dalle Très Riches Heures du Duc de Berry. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65, f. 8v. Fonte immagini: Wikipedia [97]

 

Figura 21 – Scena dell’oscuramento successivo alla morte di Cristo sulla Croce. Tratto dalle Très Riches Heures du Duc de Berry. Il manoscritto è ospitato presso il Castello di Chantilly, Musée Condé, MS 65, f.153. Fonte immagini: Wikipedia [98]

 

Il nero ha avuto molteplici significati in epoca medievale, specie negativi legati alla mortificazione, alla morte ed è stato utilizzato soprattutto con questi significati nel vestiario di alcuni ordini monastici come i Domenicani ed i Benedettini. L’uso del nero in alcuni sontuosi manti della Madonna nell’Arte italiana del Tre e Quattrocento dà al nero un significato del tutto diverso, poiché molto spesso si tratta di Madonne con bambino. Si ricordano Allegretto Nuzi, Ambrogio Lorenzetti e Angelo Puccinelli, Antoniazzo Romano e Bartolo di Fredi e molti altri.

 

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I Manoscritti e la miniatura nell’Islam medievale

A parte, e in ultimo, è da citare il caso dei manoscritti arabi che ricoprono un capitolo un po’ a sé per gli stili, i tipi di rappresentazioni più degli stessi contenuti che riguardano soprattutto copie del Corano e testi di medicina, astronomia e botanica.

 

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Figura 22 – Pagina decorata tratta da un frammento del Corano (al-Qurʼān) datato al IX-X secolo d.C. dell’Era Cristiana (III-IV secolo H.). Il manoscritto coranico è custodito presso la Biblioteca dell’Università di Cambridge (versione digitale presso la © Cambridge Digital Library), MS Add.2964, folio 2r [99].

 

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Figura 23 – Pentateuco, f. 13. Decorazione a pagina intera con decorazioni geometriche a fondo oro ed azzurro. Il manoscritto sarebbe una copia araba della Bibbia ebraica (Antico Testamento) realizzata per un tale Ǧirǧis figlio di Abū al-Mufaḍḍal nel XIV secolo. Il manoscritto, di cui si hanno pochissime informazioni, è custodito presso la © Bibliothèque nationale de France, Arabe 12 [100].

 

La miniatura dei Paesi islamici produsse esemplari di altissimo livello, che raggiunsero un grado di perfezione non dissimile da quello delle miniature più celebri della tradizione europea. Degli antichi manoscritti islamici ci sono tuttavia pervenuti solo parti di testo o fogli staccati. Questa deprecabile frammentazione non è dovuta all’imperizia dei moderni collezionisti d’arte, ma deriva dall’antica usanza del mondo islamico di smembrare le varie parti dei manoscritti per poi riunirle in albi che raccoglievano fogli della provenienza e dell’epoca più disparate. A differenza dei manoscritti europei, non è possibile quindi analizzare i codici islamici in pagine o alla provenienza. Anche gli studi più recenti, specie quelli condotti nell’ambito dell’orientalistica, spesso non forniscono tutte le informazioni che interessano agli appassionati.

 

Anche l’Islam, come il Cristianesimo e l’Ebraismo, è una religione che ruota intorno al proprio libro di culto. La religione islamica tuttavia attribuisce ai propri testi sacri una funzione completamente diversa da quella del Cristianesimo. Il Corano non rappresenta tanto la trascrizione della rivelazione di Dio ad uso dei posteri, quanto la rivelazione stessa. Il divieto di raffigurare la divinità, che del resto non trae origine dal testo coranico, nacque con l’intenzione di impedire che la sacralità della creazione divina venisse riprodotta da immagini umane, e trovò applicazione anche nel Corano: le edizioni di lusso dei manoscritti sacri infatti traboccano di ornamenti e calligrafismo di straordinaria bellezza, ma bandiscono completamente l’uso delle immagini [101]. L’Islam non amava raffigurare le immagini. In origine, infatti, la rappresentazione della realtà umana era considerata peccato in quanto segno di idolatria. Per l’Islam era pertanto peccaminoso raffigurare soggetti umani e animali: la letteratura Hadir nel IX secolo codificò le parole e le azioni del Profeta attenendosi scrupolosamente a questo divieto religioso. Questa è comunque solo una faccia della medaglia. L’altra rivela invece, al contrario, una grande tolleranza religiosa e culturale proprio da parte dell’Islam. Alcuni gruppi ortodossi si attennero all’assoluto divieto di immagini di qualsiasi genere, ma negli ambienti intellettualmente più aperti e nelle corti l’astinenza dalle immagini non si praticò con particolare rigore, per la gioia degli amanti dell’arte. Anche nei Paesi islamici nel corso del Medioevo si realizzarono così quelle opere fiabesche che ancora oggi ci tolgono il fiato per l’inimitabile fantasia.

 

Figura 24 – Di questo manoscritto non si hanno notizie, se non che potrebbe trattarsi di una specie di biografia del Profetto Maometto e della Sua Ascensione. Si tratta di un volume di due, in caratteri turco-orientali, scritti nella lingua mongola del XV secolo dell’etnia dei Uiguri [102], a cui è datato anche il manoscritto. Si notino i colori, il tipo di sfondi e le decorazioni, ma soprattutto è da osservare la particolarità dei costumi e dei copricapi maschili. Nel manoscritto il colore azzurro è tra i più utilizzati, insieme ad altre tinte vivaci. © Bibliothèque nationale de France, Supplément turc 190, folio 9v [103].

 

Middleton conferma Wolf nel trattare la parte, seppur superficialmente, dedicata ai manoscritti arabi, attribuendo l’influenza dell’arte araba anche nei manoscritti medievali italiani, specialmente quelli Veneziani e siciliani durante il XV secolo, nella decorazione dei bordi [104]. Seppure v’è da dire che il Middleton tende a mettere un po’ insieme, sotto la stessa etichetta, manoscritti miniati che fossero Persiani, Indiani e Siriani solo perché realizzati nei Paesi conquistati dagli Arabi musulmani. Questi manoscritti, alcuni consultabili anche online nelle biblioteche digitali tra cui la BnF, sono una fonte importante nell’iconografia storica medievale, per la ricostruzione di costumi arabi poiché laddove come si è detto prima, non vi era una rigidissima ortodossia, le immagini si trovano e forniscono un’importante testimonianza del costume arabo medievale, quasi mai presente nelle rievocazioni italiane. La presenza del costume islamico è limitata (e da limitarsi) esclusivamente a quelle zone dove vi sia stata una forte influenza islamica nell’arte e nella cultura o laddove gli scambi culturali tra Islam e Occidente erano molto marcati (come nella cultura spagnola) perché altrimenti si rischia di voler rievocare a tutti i costi figure da Mille e una notte in rievocazioni ed eventi in cui la presenza araba non centra nulla non essendoci mai stata. Per altro v’è da aggiungere che pochi sono i testi moderni che si servono di antiche fonti storiche figurate, come i manoscritti miniati arabi e persiani, per descrivere la storia del costume islamico che, in tal modo, rimane confinato nel cliché in cui la gente è ormai abituata a vederlo e che di filologico e storico non ha nulla. Il cinema hollywoodiano ci ha abituati a costumi arabi che pur essendo abbastanza filologici in alcuni casi, sembrano divise fatte in serie con colori pressoché spenti e deprimenti, senza alcuna fantasia; con calligrafismi arabi che insistono nel confinare quel mondo al suo cliché, come se mille anni di storia non fossero mai passati. La miniatura islamica fornisce poi informazioni che vanno oltre al costume: fornisce informazioni riguardo all’uso dei colori e del loro significato che era spesso molto diverso rispetto al Cristianesimo occidentale.

 

Figura 25 – Scena tratta dallo stesso manoscritto della scena presentata in precedenza. Notare i colori utilizzati, specie il verde ed il viola degli abiti indossati dai personaggi ai margini della miniatura. © Bibliothèque nationale de France, Supplément turc 190, folio 42r [105]

 

Nella miniatura islamica si scopre una realtà artistica che presenta, accanto a profonde differenze, sorprendenti parallelismi con il metodo della miniatura occidentale, almeno per quanto riguarda le fasi del lavoro e il tipo di figure professionali artigianali che vi lavoravano. Le maggiori informazioni sui materiali che si usavano provengono dai luoghi caratterizzati da una copiosa produzione scritta, specie per quanto riguarda la miniatura persiana del XV e XVI secolo e quella Moghul del XVI e XVII secolo.

 

Figura 26 – Angelo con scettro presiede il passaggio del sole dal segno dell’Acquario a quello dei Pesci. La miniatura è tratta da un manoscritto persiano dedicato all’astronomia e all’astrologia. Il testo è una copia anonima e non datata, attribuita a Nasir al-Din al-Tusi, un astronomo e matematico persiano vissuto nel XIII secolo dell’Era Cristiana. Fu anche fisico, chimico, biologo, filosofo, teologo, ma soprattutto uno studioso con approccio interdisciplinare, al servizio di Hülegü (Hulagu Khan). Il manoscritto fa parte della collezione dei manoscritti orientali della BnF. © Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Persan 174, folio 9r [106]

 

Figura 27 – Libro dei Re (Shâhnâmeh). Farīdūn assiso in trono affida il suo regno ai suoi tre figli: Salm, Tur e Īrāj [107]. Lo Shāh-Nāmeh, o Shāh-Nāmé (persiano: شاهنامه‎), alternative ortografiche sono Shahnama, Shahnameh, Shahname, letteralmente «Il Libro dei Re»), è una vasta opera poetica scritta dal poeta persiano Ferdowsi attorno al 1000 d.C. e costituisce l'epica nazionale del mondo di lingua persiana. Lo Shāh-Nāmeh racconta il passato mitico e storico del suo paese, l'Iran, dalla creazione del mondo, fino alla conquista islamica del VII secolo [108]. © Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Persan 228, folio 21v [109]

 

Figura 28 – Storia della conquista del mondo. Battaglia di Bolnisii. Notare i colori dei costumi dei cavalieri e le armature, molto diverse da quelle in uso in Occidente. Il manoscritto attribuito a ‛Alā al-Dīn ‛Aṭā Malik b. Bahā al-Dīn Muḥammad Al-Ğuvaynī è una copia realizzata da Djoveyni nel XV secolo. © Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Supplément Persan 206, folio 67r [110]

 

Si sa con certezza, come è stato annunciato nella parte introduttiva, che mentre in Occidente la pergamena era considerata il materiale migliore, gli arabi usavano la carta che variava per spessore e levigatezza. La carta si prestava meglio alla lavorazione, poiché era più chiara rispetto alla pergamena e tendeva a non ‘falsare’ i colori e le sfumature e inoltre poteva essere addirittura colorata o decorata in molti modi. Nel mondo islamico, il copista era più importante però del miniatore e molto più generosamente retribuito e questo è da attribuire all’importanza enorme che aveva la calligrafia, che dal X secolo divenne la forma artistica più importante in assoluto. Il suo uso è anche testimoniato nel costume realizzato dalle botteghe arabe, come nel caso del Mantello dell’Incoronazione di Ruggero II che presenta al bordo una scritta in caratteri arabi che documenta la realizzazione del mantello con tanto di data. La calligrafia nel mondo arabo aveva anche delle proprie varianti e alcune erano esclusivamente riservate agli scritti coranici: kufi, la thulut e la nastalik dalle forme elegantemente arcuate, realizzate con penne tubolari e inchiostro nero molto denso. Alla pari dell’Occidente anche in Oriente nacquero le botteghe specializzate per la produzione di codici. I contorni erano molto più precisi e fini e venivano poi riempiti con colore o oro. I miniatori erano soliti usare arabeschi o forme geometriche per i titoli dei capitoli e le parti del testo che si voleva mettere in rilievo. Altri artigiani erano invece dediti esclusivamente alla realizzazione e alla ricerca dei colori, con tendenza molto forte ad utilizzare le tonalità di turchese e di blu. Era utilizzata l’acqua come legante mentre in Occidente si tendevano ad utilizzare altri leganti come l’albume. Diversa era la tecnica di distribuzione del colore che diveniva stratificato e resistente come uno smalto ceramico, si usavano l’agata ed il cristallo per levigare, che non rompevano le fibre di carta e al posto della piuma d’oca si usavano piume di volatili rilegare con pelo di capra o scoiattolo, probabilmente per evitare che la durezza della punta bucasse o incidesse il foglio. La rilegatura del testo e la laccatura delle pitture erano riservate, alla pari dei manoscritti occidentali, ad altri artigiani specializzati che si occupavano anche della concia delle pelli. Come in Occidente anche in Oriente fine del miniatore/artista era quello di trovare un grande mecenate che lo finanziasse perché da soli era difficile fare strada, se non si faceva parte di qualche corporazione e questo perché alla pari degli artisti occidentali anche in Oriente l’estrazione sociale degli artisti era sempre varia, ma era quella del committente che contava più di tutto, perché entrati nelle grazie dei Sultani si poteva contare anche su generosissime elargizioni e quindi anche l’artista dalle condizioni più basse poteva diventare membro di una corte nobile. In Occidente l’ascesa dei miniatori come liberi professionisti fu anche più dura finchè il monopolio dell’arte manoscritta fu tenuta dai monaci. Come in Occidente si erano diffuse vari stili artistici a seconda della cultura che dominava in una determinata regione, lo stesso avvenne in Oriente lungo il succedersi delle varie dinastie a partire dalla morte del Profeta Maometto. Dopo la sua dipartita i successori si contesero il califfato dando origine a quelle che ancora oggi sono le due fazioni in lotta: Sunniti e Sciiti (quella maggioritaria). Gli Omayyadi [111], nobile famiglia de La Mecca (661-750 d.C. e in Spagna presenti fino al 1031), trasferirono la capitale del loro regno a Damasco (Siria). I seguaci di Maometto continuarono la sua politica di espansione fino a Bisanzio e in India. La dinastia Abbaside [112] a cui apparteneva anche Harun-Al-Rashid che fu anche uno dei suoi primi califfi, eresse in Iraq una nuova capitale: Baghdad, nel cui territorio la cultura persiana esercitò una forte influenza artistica. Sotto questa dinastia furono prodotte opere molto importanti, soprattutto codici scientifici e di intrattenimento come i Makamen e i manoscritti del Kalila-wa-Dimna, una raccolta di racconti indiani e la più antica. Dal X secolo furono islamizzati anche popoli nomadi di origine turca, come i Selgiuchidi, protagonisti tra i nemici dei Cristiani nella Prima Crociata. Successe la Dinastia Fatimide, che ebbe un ruolo importante soprattutto in Egitto e che riuscì ad ottenere l’indipendenza da Baghdad. La cultura islamica subì una forte influenza da quella persiana sin dalle sue origini, specialmente dopo caduta di Tamerlano, i cui successori furono convertiti all’Islam e gli trasmisero le proprie influenze culturali ed artistiche. Anche la cultura turca, specie in epoca Ottomana, ebbe una notevole influenza in campo artistico su quella persiana e islamica e particolarmente sulla calligrafia che si ricorda, fu il centro dell’arte della miniatura nel mondo islamico. Concludendo, il parallelismo più importante che emerge tra l’arte della miniatura in Occidente e quella nel mondo Islamico è legato soprattutto alla tematica della fede di ognuna delle due culture: Islam e Cristianesimo, molto differenti tra loro. In Occidente si arrivò a creare addirittura delle Bibbie istoriate [113] e soprattutto nel XIV e XV secolo si trovano esemplari di bellezza unica e dal valore inestimabile per il materiale, le tecniche e i dettagli delle scene rappresentate.

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Manoscritti, miniature e copertine

Per alcuni manoscritti digitali di alcune biblioteche, ad eccezione di quelle che distribuiscono in tutto o in parte il loro materiale sotto licenza di Pubblico Dominio, o con licenze Creative Commons (CC) e affini, non è stato possibile riprodurre alcuna immagine a causa delle restrittive disposizioni sul copyright. In questo elenco sono citati tutti i manoscritti utilizzati quali fonti iconografiche di riferimento a sostegno delle argomentazioni scritte, anche quelli di cui non è stato possibile riprodurre alcuna immagine. Sono stati utilizzati manoscritti datati dal VIII al XV secolo, provenienti dalle principali Biblioteche europee. Per alcuni manoscritti sono stati elencati i link di riferimento per le informazioni sul manoscritto, e, quando presenti, i link dove il manoscritto o la serie con medesimo titolo, sono consultabili online.

 

L’elenco e la ricerca bibliografica dei manoscritti consultati per la ricerca di questo articolo, sono stati compilati grazie anche al seguente sito: Manuscript Miniatures consultabile al link: http://manuscriptminiatures.com/ dove è possibile svolgere una ricerca per parametri e trovare i manoscritti miniati e loro allocazioni, anche online.

 

  • Ab urbe condita (Les decades de Titus Livius, Tito Livio) – British Library, Royal 15 D VI

▪ Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=7741

▪ Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 15 e vi

http://www.johannesoffenbarung.ch/bilderzyklen/trierer1.php

https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Trierer Apokalypse?uselang=de – Wikimedia Commons

▪ Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8813&

Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 12 c xix

  • Bestiario Royal 12 F. xiii – British Library, Royal 12 F. xiii

▪ Rif. Info http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=95

▪ Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 12 f xiii

▪ Rif. Info: http://www.themorgan.org/collection/Crusader-Bible

▪ Rif. Manoscritto: http://www.themorgan.org/collection/Crusader-Bible/thumbs

  • Bibbia di Holkham (Holkham Bible) – British Library, Add. MS 47682

▪ Rif. Info: http://www.bl.uk/onlinegallery/sacredtexts/holkham.html

▪ Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Add MS 47682

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8520

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 19 D II

  • Bibbia istoriata (fino al Libro di Ester) – Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 9685 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b90613966)
  • Bibbia istoriata (Bible historiale, Guyart des Moulins) – British Library, Royal 15 D III

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=7246

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 19 D III

  • Bibbia istoriata (Bible historiale, Guyart des Moulins) – Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5212 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84581379)
  • · Bibbia moralizzata (Bible moralisée) – British Library, Harley 1526

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8525

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Harley MS 1526

  • Bibbia moralizzata (Bible moralisée) – British Library, Harley 1527

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8524

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Harley MS 1527

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0006/bsb00066287/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&lv=1&bandnummer=bsb00066287

  • Biblia pauperum – Bayerische Staatsbibliothek, BSB Clm 23426

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0008/bsb00082370/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&lv=1&bandnummer=bsb00082370

  • Biblia Sancti Martialis Lemovicensis altera – Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Latin 8

· Vol I (Rif. I https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b85410155)

· Vol II (Rif. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8550862j)

  • Biblia Sancti Petri Rodensis - Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Latin 6

· Vol I (Rif. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b85388026)

· Vol II (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8538801s)

· Vol III (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b85388130)

· Vol IV (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8538814d)

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=7789

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 6 E IX)

· Vol I – Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5187 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b55007510d)

· Vol II – Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5188 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b55007513r)

· Vol III – Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5189 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b55007511v)

· Vol IV – Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5190 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b550075129)

· Rif. Info https://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=6453

· Rif. Manoscritto https://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=harley ms 2788)

· Rif. versione indicizzata: https://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0005/bsb00057171/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00057171

  • Codex Eyckensis – Trésor de l'église Sainte-Catherine, Maaseik (Rif. http://depot.lias.be/delivery/...pid=IE5258806)
  • Codex Manesse – Universitätsbibliothek Heidelberg, Cod. Pal. germ. 848. Immagini distribuite secondo Creative Commons (CC-BY-SA 3.0).

· Rif. Info: https://www.ub.uni-heidelberg.de/.../handschriften/codexmanesse.html

· Rif. Manoscritto: http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/cpg848/0243).

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0008/bsb00080685/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00080685

  • Cronaca del mondo in versi (Weltchronik in Versen) – Bayerische Staatsbibliothek, BSB Cgm 5

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0007/bsb00079954/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&lv=1&bandnummer=bsb00079954

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=6549

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 10 e iv

  • Decretum Gratiani (1170 ca.)Bayerische Staatsbibliothek, Clm 17161

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0006/bsb00065191/images/

· Rif. versione nuova: https://pracht-auf-pergament.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00065191

  • Der starke Rennewart (Willehalm) – Bayerische Staatsbibliothek, BSB Cgm 193,V

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0004/bsb00047861/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00047861

  • Dialogus de laudibus sanctae crucis – Bayerische Staatsbibliothek, BSB Clm 14159

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0001/bsb00018415/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00018415

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0007/bsb00072196/images/

· Rif. versione nuova: https://pracht-auf-pergament.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00072196

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=7931

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Harley MS 2821

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=7932

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/Viewer.aspx?ref=harley ms 2820 fs001r)

  • Evangeliario di Echternach – Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 9389 (Rif. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b530193948)
  • Evangeliario di Enrico II – Staatsbibliothek Bamberg, Msc. Bibl. 95. Il manoscritto fa parte della serie della Biblioteca Enriciana

· Rif. Info: https://www.staatsbibliothek-bamberg.de/index.php?id=1501

· Rif. Manoscritto: http://bsbsbb.bsb.lrz.de/~db/0000/sbb00000056/images/index.html

  • Evangeliario di Enrico III (o Codex Aureus di Speyerer) – El Escorial, Real Biblioteca, Cod. Vitrinas 17. Il manoscritto purtroppo non è disponibile per la consultazione online, tuttavia su Wikimedia Commons, è possibile trovare alcune miniature distribuite sotto licenza di pubblico dominio: Codex Aureus (Speyerer Evangeliar.
  • Evangeliario di Enrico il Leone (Evangeliar Heinrichs des Löwen) – Herzog August Bibliothek in Wolfenbüttel. Cod. Guelf. 105 Noviss. 2°

· Rif. Info: https://diglib.hab.de/?db=mss&list=ms&id=105-noviss-2f

· Rif. Manoscritto: https://diglib.hab.de/wdb.php?dir=mss/105-noviss-2f&distype=thumbs).

  • Evangeliario di Godescalco – Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, NAL 1203 (Rif. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6000718s)
  • Evangeliario di Lorsch – Noto anche come Codex Aureus di Lorsch, il manoscritto fa parte di una serie di testi appartenuti in epoca medievale al Monastero di Lorsch dove risulta registrato dal 830 fino al XV secolo. Quando la biblioteca del monastero divenne proprietà del principe Ottheinrich del Palatinato nel XVI secolo fu accorpata a quella preesistente di Heidelberg. Dopo che ne divenne proprietario nel XVII secolo il principe Massimiliano di Baviera il manoscritto fu diviso in due tre parti, una rimase a Roma ed è oggi conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana mentre l’altra dopo alcuni passaggi giunse alla Biblioteca Naţională a României “Alba Iulia” dove si trova tutt’ora. Il pannello frontale in avorio, la cui immagine è stata riportata anche in questo articolo, invece è ospitato presso Victoria and Albert Museum e consultabile all’indirizzo: https://collections.vam.ac.uk/item/O113554/front-cover-of-the-lorsch-gospel-cover-unknown/. La parte con i Vangeli di Marco e Matteo dell’Evangeliario è il frammento ospitato in Romania presso la Biblioteca Nazionale della Romania (Biblioteca Naţională a României) di Bucarest e consultabile all’indirizzo: https://bibliotheca-laureshamensis-digital.de/view/bnr msrII1, il portale della Biblioteca dell'Università di Heidelberg. dove è anche possibile consultare tutto il manoscritto, compresa la seconda parte con i Vangeli di Luca e Giovanni di proprietà dello Stato del Vaticano. L’intero volume digitale, diviso nelle due parti, è consultabile online presso il sito della Biblioteca dell'Università di Heidelberg all’indirizzo: https://bibliotheca-laureshamensis-digital.de/view/lorscher evangeliar. I termini di utilizzo dei tre frammenti dipendono dai custodi attuali: solo il pannello e la prima parte dei Vangeli, quelli custoditi presso la Biblioteca Nazionale della Romania sono riproducibili solo ed esclusivamente per fini divulgativi, culturali non commerciali. Per quanto riguarda la Biblioteca Nazionale della Romania le immagini sono disponibili ai sensi del regolamento del Creative Common con licenza BY-NC-SA.
  • Evangeliario di Lotario – Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 266 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8451637v)
  • Evangeliario di Saint-Denis - Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 9387 (Rif. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b550014262)
  • Evangeliario di Saint-Médard de Soissons – Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 8850 (Rif. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8452550p)
  • Evangeliario di San Gallo – St. Gallen, Stiftsbibliothek, Cod. Sang. 51 (Rif. https://www.e-codices.unifr.ch/de/list/one/csg/0051)
  • Evangeliario di Treviri – Bibliothèque de la cathédrale Saint-Pierre de Trèves, Ms.61 / 134
  • Evangeliario ottoniano – Si tratta di un manoscritto quasi anonimo datato al terzo quarto del XI secolo e realizzato probabilmente presso l’Abbazia di Echternach (da cui uscirono altri importanti manoscritti miniati in epoca precedente). Il manoscritto è attualmente ospitato presso la British Library di Londra, Harley MS 2821.

· Rif. Info: https://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Harley MS 2821

· Rif. Manoscritto: https://www.bl.uk/manuscripts/Viewer.aspx?ref=harley ms 2821 fs001r

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0004/bsb00046506/images/

· Rif. versione nuova: https://pracht-auf-pergament.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=-bsb00046506)

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=6533

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 20 B XX

  1. Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Français 607 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6000102v)
  2. Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 1178 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8448971t)
  3. Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 1179 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84489742)
  • La Fleur des histoires, de Jean Mansel

· Vol. I – Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5087 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b550098052)

· Vol. II – Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5088 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b55007168j)

· Vol. I (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8527587p)

· Vol III (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8527589h)

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0001/bsb00012920/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&lv=1&bandnummer=bsb00012920

  • Le "Pseudo-Clementine" – St. Gallen, Stiftsbibliothek, Cod. Sang. 86 (Rif. https://www.e-codices.unifr.ch/it/list/one/csg/0086)
  • Le Grandi Cronache di Francia (Les Grandes chroniques de France). Si tratta di una raccolta di cronache, compilate a partire dal XIII secolo che documentavano le vicende dei sovrani francesi a partire dalle origini dei Franchi dai Troiani fino all’epoca in cui i manoscritti furono realizzati. L’opera nel suo complesso racconta le vicende delle dinastie Merovingia, Carolingia e Capetingia dei re di Francia, con miniature numeroisssime raffiguranti personaggi e gli eventi narrati. Si tratta di una produzione iniziata per volere di Re Luigi IX, detto il Santo. Si stima che tutta l’opera sia rappresentata da ben 130 manoscritti databili dalla seconda metà del XIII secolo fino al XV e tra essi vi sono alcuni testi interamente dedicati ai più importanti sovrani francesi tra cui Carlomagno. Esistono numerosi manoscritti e diversi esemplari giunti sino a noi, anche se i più pregiati in assoluto sono quelli di Jean Fouquet del XV secolo. Come accade per il Roman de la Rose, anche in questo caso si tratta di un’opera i cui manoscritti singoli sono sparsi in diverse biblioteche, anche se la maggior parte sono consultabili online. I manocritti della British Library sono stati citati, riportando il link che possiede le immagini di Pubblico Dominio, per consultare online i manoscritti occorre selezionare la collocazione e cercarla su internet.

· British Library, Royal MS 16 G VI (Rif. http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8469)

· British Library, Royal 20 C VII (Rif. http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8466)

· Principi della Casa Reale di Francia – Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Français 2608 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8451604g)

· Carlo V e Carlo VI – Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Français 2813 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84472995)

· Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 6465 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10538041t)

· Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 2609 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10507341p)

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8148

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Yates Thompson MS 13

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=6439

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Yates Thompson MS 3

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=6440

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Yates Thompson MS 27

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8361

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Harley MS 4431

  1. Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 309 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b105295945)
  2. Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 311 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52504906t)
  3. Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5080 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b7100627v)
  • Miscellanea (X secolo) – British Library, Additional 24199

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=6785

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Add MS 24199

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0007/bsb00070697/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00070697

· Rif. Vol. I http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8449047c

· Rif. Vol. II http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8449048s

· Bibliothèque de l'Arsenal, 3338 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6000294f)

· Bibliothèque de l'Arsenal, 5210 réserve (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6000297p)

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· Bodleian Library, MS Douce 195 (Rif. http://bodley30.bodley.ox.ac.uk:8180/luna/servlet/view/all/what/MS.%20Douce%20195?os=150)

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8755

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Royal MS 1 d x

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0002/bsb00027174/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&bandnummer=bsb00027174

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=6467

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/fulldisplay.aspx?Ref=Royal MS 2 b vii

  • Salterio di Arundel o di Eadui – British Library, Arundel 155

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=86

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Arundel MS 155

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0005/bsb00056556/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&lv=1&bandnummer=bsb00056556

  • Salterio di Melisenda – British Library, Ms. Egerton 1139

· Rif. Info: https://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8095

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Egerton MS 1139

· Rif. versione indicizzata: http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0006/bsb00064970/images/

· Rif. versione nuova: https://bildsuche.digitale-sammlungen.de/index.html?c=viewer&lv=1&bandnummer=bsb00064970&pimage=00064970

· Rif. Info http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8572

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Add MS 10292

  • Storia della conquista del mondo – Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Supplément Persan 206 (Rif. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84229930)
  • Storia universale (Libro della Storie Antiche) – British Library, Additional 15268

· Rif. Info: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8326

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=add ms 15268

  • Storie d’Oltremare (Histoire d'Outremer) – British Library, Yates Thompson 12

· Rif. Info http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8129

· Rif. Manoscritto: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Yates Thompson MS 12

  1. Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 9198 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8451109t)
  2. Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 9199 (Rif. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b105325908)

 

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Note

[1] John Henry Middleton nel XIX secolo dà una definizione più articolata di manoscritto, inteso come qualsiasi scrittura realizzata dalla mano umana, senza parlare di libri e facendo una distinzione tra ciò che fa parte della paleografia e ciò che invece fa parte dell’epigrafia a seconda del materiale su cui la scrittura sono incise. (Middleton, 1892, pp. 1-2)

[2] (Middleton 1892, 27-28)

[3] https://www.treccani.it/enciclopedia/manoscritto/

[4] https://www.treccani.it/enciclopedia/pergamena/

[5] (Barbero, 2002)

[6] (Middleton, 1892, pp. 20-21)

[7] Dal gr. palímpséstos 'raschiato di nuovo', comp. di pálin 'di nuovo' e pséstós, p. pass. di psáó 'ra. Manoscritto per lo più pergamenaceo in cui la scrittura primitiva sia stata raschiata e sostituita con un'altra (spesso disposta trasversalmente rispetto alla prima).

[8][8] Secondo Middleton questo è uno dei motivi per cui l’uso del papiro fu presto abbandonato perché i palinsesti scritti su di esso comportavano la rovina del supporto e non sempre si riusciva a cancellare in modo efficace la scrittura dello sfondo, (Middleton, 1892, p. 21)

[9] (Middleton, 1892, p. 21)

[10] (Barbero, 2002)

[11] (Norbert, 2007)

[12] In legatoria, il piatto ciascuna delle due parti (p. anteriore, p. posteriore) costituenti la legatura del libro: è formata, in genere, dal quadrante (in passato realizzato in legno, oggi per lo più di cartone), rivestito all’esterno dalla coperta (che può essere di carta, di pelle o di altri materiali), mentre sulla sua faccia interna è incollata la carta di guardia o controguardia. (Treccani, s.d.)

[13] Msc. Patr. 5

[14] (Norbert, 2007)

[15] (Treccani, s.d.)

[16] (Middleton, 1892, pp. 31-32)

[17] L’uso sempre più frequente dell’oro nella decorazione dei manoscritti più pregiati divenne interesse non solo dei committenti che ci tenevano a far sfoggio del loro prestigio e della loro ricchezza, ma anche dei vandali e dei ladri di manoscritti che dalle incursioni barbariche sino all’era moderna violavano e profanavano le sedi custodi di tali opere, per poi raschiare via l’oro da fondere e destinare ad altri usi. I meno intelligenti tra i ladri di libri preziosi non guardavano il codice per il patrimonio che rappresentava nel suo insieme, ma solo per quelle parti in oro che contenevano, così quando non rubavano l’intero testo si limitavano a raschiare via l’oro o tagliare via addirittura la sezione interessata, danneggiando irrimediabilmente il testo.

[18] Questo problema di anonimia accade spesso anche per soli pittori di epoca antica e medievale e si usa anche in tal caso il titolo di Maestro seguito dal titolo dell’opera più celebre a loro attribuita.

[19] (Norbert, 2007)

[20] (Middleton, 1892, pp. 45-46)

[21] Lo stile bizantino divenne simbolo di un certo benessere ed era presente nell’arte del mosaico, nell’architettura e nella tecnica della pittura degli edifici e persino nell’arte tessile. Particolare di questo stile era il tocco orientale con i suoi colori, le sue forme molto diverse da quelle in Occidente. (Middleton, 1892, pp. 46-47)

[22] (Middleton, 1892, pp. 46-61)

[23] (Norbert, 2007, p. 32)

[24] (Middleton, 1892, pp. 64-66)

[25] (Middleton, 1892, p. 62)

[26] Bible de Vivien, dite Première Bible de Charles le Chauve, Bibliothèque nationale de France, Latin 1 e Seconde Bible de Charles le Chauve, Bibliothèque nationale de France, Latin 2

[27] Bible de Vivien, Bibliothèque nationale de France, Latin 1 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8455903b

[28] (Middleton, 1892, p. 63)

[29] (Middleton, 1892, p. 44)

[30] (Norbert, 2007, pp. 34-35)

[31] Seconde Bible de Charles le Chauve. Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 2 - http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8452767n

[32] (Robinson, 1908)

[33] (Ellis & Ellsworth, s.d.)

[34] https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8e/KellsFol292rIncipJohn.jpg

[35] https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/d/.../800px-LindisfarneFol27rIncipitMatt.jpg

[36] (Middleton, 1892, p. 80)

[37] (Middleton, 1892, pp. 84-85)

[38] Il termine è generico e usato talvolta come sinonimo di Normanni, ma erroneamente perché ciò crea parecchia confusione nei lettori. Sotto il nome di Normanni (northman "uomo del nord") si chiamano dapprima gli Svedesi, i Norvegesi e i Danesi, le tre popolazioni scandinave che, alquanto confuse, abitavano, nel più alto Medioevo, le regioni dell'Europa settentrionale, che tuttora portano il loro nome. Più comunemente, questo nome (nella forma latina: northmannus, normannus) stette poi a indicare i predoni, in gran parte norvegesi, che, scorrazzando dallo scorcio del sec. VIII per i mari del nord, si stabilirono in Francia, nell'attuale Normandia, donde, adottati lingua e costumi francesi, mossero nel sec. XI le schiere che conquistarono l'Inghilterra e l'Italia meridionale. In conseguenza, anche se il fondo psicologico più riposto di queste genti restò, dopo i contatti con altri popoli, sostanzialmente identico, una diversità, e non lieve, esiste fra di loro. Ma qui, seguendo l'uso invalso, si continuerà a denominarle indistintamente Normanni, aggiungendo che nelle fonti sogliono esser dette anche vikinghi, da wiking (forse "guerriero"), che precisamente è il nome che gli stessi Normanni dànno al capo d'una loro spedizione marittima.

[39] Il termine è generico e usato talvolta come sinonimo di Normanni, ma erroneamente perché ciò crea parecchia confusione nei lettori. Sotto il nome di Normanni (northman "uomo del nord") si chiamano dapprima gli Svedesi, i Norvegesi e i Danesi, le tre popolazioni scandinave che, alquanto confuse, abitavano, nel più alto Medioevo, le regioni dell'Europa settentrionale, che tuttora portano il loro nome. Più comunemente, questo nome (nella forma latina: northmannus, normannus) stette poi a indicare i predoni, in gran parte norvegesi, che, scorrazzando dallo scorcio del sec. VIII per i mari del nord, si stabilirono in Francia, nell'attuale Normandia, donde, adottati lingua e costumi francesi, mossero nel sec. XI le schiere che conquistarono l'Inghilterra e l'Italia meridionale. In conseguenza, anche se il fondo psicologico più riposto di queste genti restò, dopo i contatti con altri popoli, sostanzialmente identico, una diversità, e non lieve, esiste fra di loro. Ma qui, seguendo l'uso invalso, si continuerà a denominarle indistintamente Normanni, aggiungendo che nelle fonti sogliono esser dette anche vikinghi, da wiking (forse "guerriero"), che precisamente è il nome che gli stessi Normanni dànno al capo d'una loro spedizione marittima.

[40] (Middleton, 1892, p. 93)

[41] (Wilson & Klindt-Jensen, 1966, pp. 26-28)

[42] (Norbert, 2007, p. 35)

[43] Sconfiggere un avversario dimostrando una schiacciante superiorità. [Der. di classe, sul modello del fr. surclasser].

[44] Procedimento pittorico di riproduzione delle luci e delle ombre mediante vari toni di grigio. [Der. di gris 'grigio'].

[45] Protezione, difesa, patrocinio:

[46] (Norbert, 2007, pp. 35-38)

[47] (si-nò-pia). Colore rossastro d'incerta composizione, usato un tempo dai pittori di affreschi per i disegni preparatori, anch’essi chimati Sinopie. Varietà di ocra rossa usata spec. in falegnameria per tracciare sul legno la riga da seguire col taglio della sega. Il nome deriva da Sinope, sul Mar Nero, da cui proveniva la terra rossa. In alcuni manoscritti è ancora possibile trovare le sinopie, non colorate (a causa di eventi che non sempre c’è consentito conoscere) delle miniature e nei manoscritti digitali, quando possibile e consentito, è possibile utilizzare queste bozze per realizzare ricami su abiti e mantelli a seconda delle esigenze.

[48] È prevalentemente di colore azzurro intenso (ma ne esistono anche campioni di colore più vicino al celeste, a seconda della quantità di calcite). Il lapislazzuli è costituito da una elevata concentrazione di lazurite con associati altri minerali accessori come calcite e inclusioni di pirite. Il lapislazzuli si trova in giacimenti soprattutto in Afghanistan (Miniera di Sar-e-Sang, in Badakhshan, citata anche da Marco Polo), in Cina e Cile. È presente anche in alcune effusioni dei vulcani campani e laziali.

[49] La pianta viene impiegata per le sue foglie, che per fermentazione permettono di ricavare il prezioso pigmento azzurro grazie alla conversione del glicoside indigotano in indigotina.

[50] Tecnica pittorica che fa uso di agglutinanti diversi dall'olio per i colori (anticamente il rosso d'uovo, oggi la colla animale o talvolta la cera bianca rettificata nel petrolio o nell’essenza di trementina).

[51] Formula Pb2SnO4, un ossido del piombo con lo stagno, a volte combinato col silicio. Sarebbe stato scoperto secondo alcuni alla fine del Medioevo, ma il Middleton ne attribuisce l’uso già alla miniatura antica e classica. (Middleton, 1892, pp. 36-50)

[52] Formula (PbCO3)2, utilizzato sin dai tempi antichi come pigmento bianco.

[53] Si tratta di un pigmento inorganico naturale di uso assai diffuso e deriva da un minerale ferroso noto anche come ematite. Formula: Fe2O3·nH2O.

[54] Il Murice era utilizzato sin dall’età antica come pigmento per tingere i tessuti ed ottenere la preziosa porpora. Secondo Rosita Levi Pisetzky era utilizzato anche per ottenere altre colorazioni, tramite miscelazione con altre sostanze.

[55] (Middleton, 1892, pp. 36-50)

[56] (Middleton, 1892, pp. 239-241)

[57] La distruzione di alcune immagini è poi da attribuire sia alla negligenza dei vari possessori di un libro nel corso dei secoli sia ai cacciatori dei manoscritti, poiché è noto che specie durante le incursioni barbariche questi testi fossero particolarmente interessanti per gli invasori contenendo lettere e decorazioni in oro che veniva grattato via rovinando in questo modo l’opera del miniatore. Alcuni esemplari particolarmente preziosi e giunti sino ad oggi come i manoscritti di Limdisfarne e Kells sono sopravvissuti grazie ai monaci che li nascosero e li protessero a costo della loro vita. Altri manoscritti hanno miniature rovinate a causa del loro cattivo stato di conservazione e alla mancanza di interventi di restauro che oggi, si sa, sono costosi e necessitano di continui interventi.

[58] (Middleton, 1892, p. 240)

[59] La calcinazione è un procedimento che prevede il riscaldamento di sostanze solide a temperatura elevata per eliminarne l'acqua, decomporre i carbonati e ottenere un residuo fisso. [Der. di calcinare].

[60] Nome generico di un importante gruppo di minerali del silicio (silicati di magnesio, ferro, calcio, ecc) presenti soprattutto nelle rocce vulcaniche,

[61] Denominazione di un gruppo di minerali, miscele isomorfe di silicati di ferro, magnesio, calcio, di colore variabile (verde, nero, azzurro).

[62] Nome generico di un gruppo di minerali diffusi in tutti i tipi di rocce; sono per lo più silicati alcalini contenenti calcio, ferro, alluminio, magnesio, manganese e fluoro, che si sfaldano in lamine sottilissime e lucenti. [Lat. mica 'briciola', incr. con micare 'brillare’]

[63] Minerale: bisolfuro di ferro, di colore giallo-oro con lucentezza metallica; componente accessorio di molte rocce, costituisce anche importanti giacimenti e viene sfruttato come minerale di ferro e per la produzione dell'acido solforico. [Dal gr. pyrítés, der. di pYr pyrós 'fuoco'].

[64] Fonte Treccani

[65] (Middleton, 1892, pp. 242-243)

[66] Evangeliario di Saint-Médard de Soissons, Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 8850 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8452550p/f44.item.r=medard%20de%20soissons

[67] Pacino di Buonaguida o Bonaguida (Firenze, 1280 circa – prima 1340) è stato un pittore e miniatore italiano, di scuola giottesca. Il primo documento che parla di Pacino risale al 1303, anno in cui il giovane artista, definito come artifex publicus in arte pictorum, interrompe la sua collaborazione con il pittore Tambo di Serraglio, presso il quale forse aveva condotto il suo apprendistato: questo colloca con buona approssimazione la sua presunta data di nascita a circa un ventennio prima. La sua pittura è caratterizzata da uno stile arcaico fortemente legato ai canoni della fine del XIII secolo e influenzato dalle prime opere di Giotto.

[68] Convenevole da Prato (tra 1270 e 1275 – Prato, 1338) è stato uno scrittore, notaio, ambasciatore ed educatore italiano. Notaio, maestro delle discipline del trivio (grammatica, retorica e dialettica), fu insegnante di Francesco Petrarca e del fratello Gherardo, istruendo i due ragazzi nei primi elementi della grammatica e della retorica latina poiché il loro padre, il notaio ser Petracco di Parenzo, intendeva fare di loro due giuristi. Petrarca rimase sotto la guida di Convenevole fino al 1316, anno in cui, sempre per volere del padre, fu mandato col fratello a studiare legge a Montpellier. Non si hanno notizie certe sulla data di nascita del maestro, ma, secondo quanto ci dice Petrarca, nell'anno della morte doveva avere un'età avanzata. Bravo insegnante ma di carattere irrequieto e scombinato, poco abituato alla vita pratica, sempre secondo il Petrarca, l'opera letteraria di Convenevole spesso consisteva in componimenti iniziati e mai terminati. Pare comunque che un'opera compiuta attribuita al maestro esista: una raccolta di versi liturgici, circa 3700, intitolati Carmina Regia, e dedicati al re Roberto d'Angiò.

[69] https://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/ILLUMIN.ASP?Size=mid&IllID=47779

[70] (Dückers & Roelofs, 2009, pp. 51-53)

[71] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[72] (Middleton, 1892, p. 244)

[73] (Levi Pizetsky, 1978)

[74] Una regione storica tedesca nota già ai Romani, occupata poi da Alamanni e Franchi nel corso dell’Alto Medioevo.

[75] L’uso smisurato del piombo è noto sin dall’età romana ed era probabilmente sul lungo termine tra le principali cause di malattie, specie quelle tumorali, e intossicazioni letali.

[76] Evangelia, Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Latin 263 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84921527/f259.item.r=Evangelia.zoom

[77] (Middleton, 1892, p. 245)

[78] (Middleton, 1892, p. 246)

[79] Evangeliario detto di Loisel, Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Latin 17968 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84238343/f38.item.r=Evangelia.zoom

[80] La Sequoia è una specie botanica a rischio di estinzione caratterizzata oltre che dalle dimensioni dal pregiato legno di colore rosso da cui si ricaverebbe il pigmento, noto anche come Rosso Sequoia. Tale specie sarebbe originaria dell’America anche se stato ipotizzato, sulla basse della panspermia, che tale specie o sue varianti più piccole esistessero sul nostro continente prima delle glaciazioni. La sua coltivazione in Europa è datata al XIX secolo, tuttavia non è da escludere che nel corso delle evoluzione la specie abbia mantenuto alcune caratteristiche in esemplari di dimensioni minori e ancora oggi esistenti.

[81] (Bechtold & Mussak, 2009, pp. 8-10)

[82] (Bechtold & Mussak, 2009, pp. 8-10)

[83] Di Sailko - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28945863

[84] Un arcipelago situato nell’Atlantico tra Spagna e Marocco, già conosciuto in epoca romana, anche se non è certo, mentre contatti certi sono datati almeno al XIV secolo.

[85] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[86] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[87] L'abito corale è una veste ecclesiastica utilizzata dal clero cattolico e anglicano. Prende il nome dal fatto che è l'abito indossato dai consacrati quando assistono alle celebrazioni liturgiche, cioè dal coro, per la celebrazione della liturgia delle ore o di un atto di devozione, per l'amministrazione dei Sacramenti se al di fuori della messa. È di color rosso porpora (da cui il nome di "porporati"), anziché rosso-violaceo (tecnicamente "paonazzo"), a simboleggiare la disponibilità anche al martirio; il galero (il cappello), rosso anziché verde, fa parte dello stemma, come per i vescovi.

[88] Termine coniato per italianizzazione nel XIV secolo, ma di origine greca: lithárgyros, comp. di líthos 'pietra' e árgyros 'argento'.

[89] (Middleton, 1892, p. 247)

[90] Cellula capace di assumere nel proprio protoplasma granuli di pigmento.

[91] (Bechtold & Mussak, 2009, pp. 15-16)

[92] (Bechtold & Mussak, 2009, pp. 17-18)

[93] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[94] (Middleton, 1892, p. 244)

[95] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[96] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[97] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[98] Wikimedia Commons - Category:Très Riches Heures du Duc de Berry

[99] Al-Qurʼān (MS Add.2964) - Cambridge Digital Library.

[100] Pentateuco. Bibliothèque nationale de France,Département des manuscrits, Arabe 12 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84192173/f13.item.zoom

[101] (Norbert, 2007, p. 44)

[102] Gli Uiguri sono un'etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina, soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang, insieme ai cinesi Han. Gli uiguri costituiscono la maggioranza relativa della popolazione della regione. Storicamente, il termine "uiguri" (che significa "alleati", "uniti") venne applicato a un gruppo di tribù di lingua turca che viveva nell'odierna Mongolia, generalmente identificati con i Tie-le (a loro volta spesso collegati con i Ting-ling) delle cronache cinesi. Insieme ai turchi Gok (celesti), gli uiguri furono dunque uno dei maggiori e più importanti gruppi di lingua turca ad abitare l'Asia Centrale.

[103] Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Supplément turc 190 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8427195m/f16.item

[104] (Madden, 1833, p. 204)

[105] Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Supplément turc 190 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8427195m/f89.item.zoom

[106] Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Persan 174 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8410888f/f25.item.zoom

[107] Farīdūn (persiano: فریدون‎‎ o Fereydūn; medio-persiano: Frēdōn; Lingua avestica: Θraētaona), pronunciato altresì Freydun, Faridon e Afridun, è il nome di un re mitologico e di un eroe del regno di Varena. È ricordato come simbolo di vittoria, giustizia e generosità nella letteratura persiana.

[108] A parte la sua importanza letteraria lo Shāh-Nāmeh, scritto in persiano arcaico, è stato di fondamentale importanza per la rinascita della lingua persiana successivamente all'influenza dell'arabo. Questo voluminoso lavoro, considerato un capolavoro letterario, riflette anche la storia del grande impero persiano, i suoi valori culturali, le sue antiche religioni (lo Zoroastrismo), e il suo profondo senso nazionale. Ferdowsi ha completato lo Shāh-Nāmeh nel momento in cui l'indipendenza nazionale era stata compromessa. Mentre ci sono memorabili eroi ed eroine di tipo classico nell'opera, il vero protagonista è la Persia stessa. È quindi un importante libro per tutto il mondo iranico, includendo anche l'Afghanistan, il Tagikistan ed altri Paesi dell'Asia centrale.

[109] Libro dei Re (Shâhnâmeh), Ferdowsi – Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Persan 228 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8406159w/f48.item.zoom

[110] Storia della conquista del mondo – Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Supplément Persan 206 - https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84229930/f141.item

[111] Si tratta di uno dei Clan più ricchi de La Mecca e governavano la città grazie ad una rete oligarchica famigliare specie per quanto riguarda i commerci. Si convertirono all’Islam solo dopo la presa della città da parte di Maometto, con cui erano entrati in contrasto. La sottomissione all’Islam fu comunque vantaggiosa per il capostipite della famiglia poiché consentì loro di mantenere intatto il patrimonio e di occupare posizioni di potere e di prestigio. Il loro califfato si concentrò soprattutto in Siria e Spagna, specialmente in Andalusia e a Cordova.

[112] Quella cui appartenenva Al-‘Abbas b. ‘Abd al Muţţalib, zio paterno di Maometto e trisavolo del fondatore della dinastia. Furono la terza dinastia del mondo islamico.

[113] Adorno di figure evocative di imprese o di leggende o anche destinate a puri effetti decorativi.

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