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Nozze a Cascia: abiti, cerimonie e riti nuziali della Cascia del ‘400 (Tratto dalla Vita di Santa Rita)

Indice

L’amore e la guerra di Rita: l’incontro e le nozze con Paolo Mancini

     Nozze sobrie

Bibliografia

     Internet


L’amore e la guerra di Rita: l’incontro e le nozze con Paolo Mancini

Di Paolo di Ferdinando Mancini sappiamo poco e sappiamo che faceva parte di quelle famiglie che si dilettavano a guerreggiare e praticare la faida nella Cascia di quegli ultimi anni del XIV secolo e i primi del successivo. Era molto più grande di Rita, sui venti mentre lei era appena dodicenne. Paolo era dunque un soldato sicuramente, cavaliere è probabile ma non nel senso di appartenente ad un Ordine equestre, nobile o comunque ricco e di famiglia in vista con buona probabilità. Paolo non godeva di ottima fama, proprio perché sicuramente era solito unirsi o essere in prima fila durante le cavalcate in territorio nemico, aveva le mani intrise di sangue e conosceva poche regole, oltre a quelle della scherma anche se non è possibile immaginarlo attorno ad un manuale di combattimento, essendo il Fiore dei Liberi pubblicato solo nel 1409 (1410) a Ferrara. Aveva imparato la guerra con la pratica. Era legato a circoli potenti, famigliari e politici, all’interno dei quali ricopriva un ruolo che gli assicurava rispetto [1]. Oggi saremmo propensi a fare atroci paragoni essendo la realtà della faida e della vendetta ancora praticate laddove regna l’anarchia. Non era un capo in senso assoluto, ma un gregario [2] potente che disponeva a sua volta di altri gregari, dei quali si avvaleva per fare ciò che doveva. Sembra che quando vide Rita la prima volta, se ne fosse innamorato e per rispetto ne avesse chiesto la mano al padre. Probabilmente la notizia è agiografica, perché come è possibile pensare che ad un tale individuo, promotore della violenza, un paciere come Antonio Lotti concedesse la mano della figlia da poco adolescente senza opporre obiezioni?


I genitori di Rita avevano certamente in mente di maritare la figlia per assicurarle un futuro e una certa protezione come accadeva a quei tempi assicurandole magari una dote, ma da più parti pare che la giovane fosse reticente. Paolo però rappresentava al contempo qualcuno che l’avrebbe potuto proteggere sostituendo un domani la protezione della famiglia di origine. Paolo, come lo definisce l’autore «era coinvolto, come tanti giovani di lama lesta e spirito intraprendente, nel grande gioco delle rivalità casciane, che era principalmente politico». Non è possibile però che fosse un figlio di nessuno e se aveva chiesto la mano di Rita, considerava non solo il suo status sociale ma anche il proprio per credere di averne quanto meno diritto. Ciò ha condotto gli storici a pensare che probabilmente era un ufficiale militare della Guarnigione di Collegiacone [3], o forse anche un ricco commerciante o mediatore di affari con la propria famiglia e aveva un ruolo nel crocevia commerciale che passava per il centro Italia tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo [4]. Dalle ricerche d’archivio sul suo cognome emergono notizie sulla sua famiglia e si trovano riferimenti ad un mulino, che era una fonte di ricchezza per l’epoca e la professione di mugnaio era fiscalmente privilegiata e questo faceva di lui un piccolo monopolista locale di farina, pane e derivati. Era dunque ricco, ma non per questo amato considerando che gli agricoltori alle sue dipendenze spesso avevano visto i loro diritti violati sulla parte a loro spettante del raccolto. La casa accanto al mulino sul fiume Corno, fu probabilmente la seconda residenza di famiglia di Paolo e Rita.


Malgrado avesse l’anima nera e fosse coinvolto in traffici e faide sporche di sangue, Paolo era risolutamente e sinceramente innamorato di Rita e voleva sposarla secondo le regole. Se i genitori di lei e forse anche quelli di lui fossero perplessi da questa unione è una lecita domanda perché nessuna delle due parti vedeva di buon occhio per molte ragioni, specie politiche, le possibili conseguenze di quell’unione. Tuttavia sembra che acconsentirono. Paolo di Ferdinando [5] è l’uomo chiamato nei documenti del 1393 pretendente alla mano di Rita. Come si fossero conosciuti è un po’ un mistero, probabilmente erano compaesani e Paolo non trascorreva tutto il suo tempo, seppur la maggior parte, nelle lotte e negli intrighi. Altre ipotesi suggeriscono che la conobbe in una occasione offertagli dalla sorte o da Dio, durante l’esercizio dell’attività di famiglia. Seppure reticente, forse perché appena adolescente, le fonti non parlano di rifiuto di Rita a sposarsi né negano un suo reciproco sentimento nei confronti di un uomo così diverso da lei. Non esistevano problemi legali perché gli Statuti casciani [6] attestano l’età minima per le nozze ai maschi a quattordici anni e per le femmine a dodici, dunque Rita poteva sposarsi. Per noi oggi sarebbe follia, ma bisogna considerare la mentalità e anche l’età media, lo stile di vita e l’elevato tasso di mortalità infantile e anche in puerperio.


L’agiografia non riporta di focose passioni o cose travolgenti benché confrontando un carattere come quello che poteva avere Paolo con quello mite sicuramente di Rita, si sarebbe detto che fossero incompatibili, considerando anche che venivano da due mondi completamente agli antipodi: la pace e la guerra, impossibili forse da conciliare. L’agiografia tace e questo anche in segno di rispetto di un amore coniugale sincero e che mette una nota positiva alla leggenda nera che circonda lui. Profondamente rispettata dal padre e onorata dal marito Rita forse sfugge ai luoghi comuni del suo tempo e ad alcune convenzioni, tuttavia Paolo è definito come uno dal brutto carattere, rissoso e tendente alle sfuriate a cui lei non reagiva apparentemente mai fino a quando non era sbollita la collera. Trascorsero insieme diciotto anni e dunque un matrimonio duraturo per l’epoca, vita insieme che terminò drammaticamente quando venne assassinato. Erano felici insieme e forse la vicinanza mitigò il caratteraccio di lui e lei fu a lungo un esempio per lui a cambiare vita e rinunciare alla violenza delle faide. Il fatto che Rita avesse ricevuta una profonda e ampia educazione religiosa non fa di lei una bigotta incapace di provare le forti emozioni umane, tipiche dell’adolescenza e dunque il desiderio e la passione che portano a provare attrazione, amore per il proprio uomo. Rita era innamorata di quel ragazzo e seppe amarlo intensamente fin da principio, ma pare che attesero due anni prima delle nozze vere e proprie. Dunque Rita convolò a nozze a quattordici anni quando Paolo aveva superato la ventina. Qui testimonianze postume indirette e agiografia fanno la gara a colmare il vuoto storico che le fonti non raccontano, per descrivere l’amore tra queste due persone. Un Medioevo romantico, diverso da quello descritto nel contesto storico che però non va mai dimenticato perché anche se felici insieme, Rita e Paolo erano consapevolissimi di essere in un mondo che non perdonava niente e nessuno e ne pagarono il prezzo.


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Nozze sobrie

Arrivati al giorno tanto agognato delle nozze, Rita e Paolo iniziarono il nuovo percorso insieme. Le fonti parlano di un matrimonio sobrio e non per tirchieria delle famiglie che volendo avrebbero potuto spendere anche molto, ma per i limiti imposti dalle Leggi suntuarie casciane [7][8]. Così per quanto riguardava i matrimoni, poneva limiti severi alla libertà di scambiarsi doni, di invitare alla cerimonia chiunque si volesse, di largheggiare nell’ospitalità. Soltanto gli sposi potevano farsi reciprocamente dei regali. Non era loro permesso, per, di farne ad altri, né riceverne. Nemmeno dai suoceri o dai parenti più stretti. Al pranzo, poi, non potevano prendere parte che i consanguinei fino al terzo grado e gli affini fino al secondo. In pratica: genitori, fratelli e cognati, eventualmente nonni e nipoti e qualche zio, ma niente cugini e amici [9]. C’era tuttavia della grazia nel nitore [10] dei riti nuziali e delle sobrie cerimonie famigliari che gli statuti e l’etichetta di Cascia prevedevano.


Per quanto riguarda il momento immediatamente precedente alle nozze troviamo riti che ci sembrano più famigliari e vicini ai nostri tempi che al Medioevo che siamo abituati a sentire raccontare. Paolo mandò a casa di Rita, qualche tempo prima del matrimonio doni semplici ma raffinati: una cintura e degli abiti. A recapitarli furono, secondo la tradizione, tre donne. Le quali però non poterono accettare a casa di Rita niente da bere o da mangiare salvo un “bicchierino e pastine”. Di lì a poco tempo, quando la data era ormai prossima, Paolo mandò altri doni più pregiati: tessuti e ornamenti personali, forse gioielli. A recapitarli, questa volta furono tre uomini.


Venne infine il giorno del matrimonio che si celebrò in Casa Lotti (una cappella di famiglia) o più verisimilmente la Chiesa di Montano che era li vicina. Il problema del luogo è relativo e l’autore, Cuomo, sostiene che probabilmente tutto il rito avvenne in una volta sola iniziando dalla casa della sposa e che rappresentava la parte meramente contrattuale poiché vi erano anche beni materiali di valore e conclusosi in chiesa per la liturgia nuziale con la somministrazione del sacramento. Erano presenti dieci uomini e dieci donne in tutto. Rita e Paolo si scambiarono gli anelli di foggia umbra, diversi dalle comuni fedi nuziali poiché rappresentavano due mani che si stringono. Mentre quello di Paolo è andato perduto, quello di Rita è conservato invece ed esposto al pubblico nel convento che ne porta il nome [11].


  

Figura 2 – L’anello nuziale accanto alla teca che custodisce il corpo intatto della Santa. Fonte: web. Accanto una riproduzione moderna che mostra più in dettaglio le due mani che si stringono.


Quanto agli abiti si può solo fantasticare, servendocisi di fonti sul costume, leggi suntuarie e storiografia oltre alle fonti iconografiche coeve, quale fossero quelli nuziali di Rita e Paolo. Un piccolo libricino noto come Regole per alcune anime divote[12], un breviario casciano in volgare umbro di quel tempo, ci fornisce alcune limitazioni probabilmente prese dagli statuti suntuari casciani per cui sappiamo anche cosa sicuramente non avrebbe indossato Rita quel giorno. Non c’erano sicuramente esagerazioni in eccentriche ‘forgie o frappature’ [13], code o altri addobbi vistosi che potessero farla passare per covella qualsiasi [14], ma sicuramente non si sarà ecceduto nemmeno in francescano rigore. È possibile che possa aver indossato “vestimenta rachamate” su una “camiscia lavorata al collaro o vero le estremità de le maniche” e che non abbia rinunciato a quegli ornamenti che la sua condizione le consentiva di possedere – e di esibire in determinate occasioni, per tradizione di famiglia – come “el collaro de oro o de argento o de perle o de seta o de altra materia” [15]. Non ci sono termini specifici di vestiario per identificare, almeno nelle fonti iconografiche un modello di abito ma la presenza di una veste ricamata lavorata al collo e alle estremità delle maniche fa ragionevolmente presumere – ed è un’ipotesi del tutto legittima – che Rita indossasse una versione della pellanda [16] o una gamurra [17]. Sul colore non ci viene data nessuna informazione e purtroppo non si hanno fonti iconografiche né coeve né postume di questo sposalizio per avere qualche dettaglio in più sulle vesti e gli ambienti di uno sposalizio tanto speciale.


 

Figura 3 - Cappella di Teodolinda, Storie di Teodolinda, Monza. Zavattari, 1444. Si nota la pellanda della regina mentre le ancelle, specie quella frontale indossa una veste già tipicamente rinascimentale. In questo caso la pellanda non mostra il collare come nelle versioni francesi, specie nei manoscritti miniati o nell’esemplare del Maestro della Manta del Castello di Saluzzo, in Piemonte sempre della prima metà del XV secolo, a fianco (rappresentazione di Eleonora di Arborea). Ovviamente questi modelli di pellanda sono molto lussuosi, è possibile che Rita indossasse una versione dal taglio più simile a quello della Manta, ma senza le frange e i particolari dettagli delle maniche.


Figura 4 – Esempi di gamurre tratte dall’affresco ‘Adorazione del sacro legno e incontro tra Salomone e la Regina di Saba’ di Piero della Francesca del 1452 (ultimi anni di vita di Santa Rita). Si tratta di immagini usate ad esempio, poiché non si hanno ritratti della vita di Rita prima della vita monastica e anche dopo, l’immagine che la ritrae sfrutta soprattutto la simbologia ritiana per il fedele.


Quanto agli uomini è presumibile che la loro tenuta sia stata pressoché uniforme. La moda maschile prevedeva per le occasioni solenni un abito da cerimonia denominato giornea [18], che consisteva in un’elegante tunica da sovrapporre alla camicia. Le fonti iconografiche e i termini volgari che identificavano uno stesso abito o una sua leggera variante rispetto al taglio originale, creano molta confusione nell’identificare con precisione questo modello di abito. Affreschi italiani di quel periodo comunque sono un’ottima fonte cui attingere, ma si trovano più fonti quattrocentesche che del secolo precedente.


Figura 5 - Cappella dei Magi, Palazzo Medici Riccardi. Benozzo Gozzoli, Firenze 1459. Si osservano in questo affresco coevo del periodo in cui visse gli ultimi anni Santa Rita da Cascia, molti modelli di giornea che è quella tunica indossata con la manica aperta e foderata di pelliccia.


Non vi fu banchetto subito dopo la cerimonia, come accade invece oggi, ma una semplice offerta rituale di vino e ancora pastine, una sorta di rinfresco, diremmo oggi. Paolo se ne tornò a casa sua senza Rita e mandò solo più tardi, quando lei fu pronta, degli amici a prenderla. Così voleva la consuetudine casciana. Lui l’attese sulla soglia. Nessuno lungo la strada potè offrire doni alla sposa né pretendere pedaggi da lei o dagli accompagnatori, per l’attraversamento di proprietà private, il che indica che le loro abitazioni non fossero così vicine.


A casa dello sposo si tenne il primo vero convito, cui parteciparono esclusivamente i suoi parenti, entro i limiti di consanguineità e affinità stabiliti, come si è visto, dalle leggi casciane. Un secondo pranzo si tenne in casa della sposa, una settimana dopo, con solo i parenti di lei. Paolo vi prese parte con tre uomini e tre donne della sua casa portando un cesto di vivande quale rituale ‘contributo del marito’ al banchetto. Anche su questa usanza, certo antecedente alle leggi suntuarie, gli Statuti casciani interferivano, stabilendo che non più di una cesta poteva essere portata. Rita portò con sé nella nuova casa una cassa contenente il suo corredo, scodelle di terracotta ed altri oggetti per la casa [19].


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Bibliografia

  • Cuomo, F. (1997). Santa Rita degli Impossibili. Casale Monferrato: Piemme.
  • Levi Pizetsky, R. (1964). Storia del costume in Italia (Vol. I). Treccani.
  • Levi Pizetsky, R. (1964). Storia del costume in Italia (Vol. II). Treccani.
  • Muzzarelli, M. G. (1996). Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo. Torino: Paravia & C. S.p.A.
  • Muzzarelli, M. G. (1999). Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo. Bologna: Il Mulino.
  • Muzzarelli, M. G. (2006). Ma cosa avevano in testa? Copricapi femminili proibiti e consentiti fra Medioevo ed età moderna.
  • Muzzarelli, M. G. (2015). Uomini, vesti e regole. Dall’alto medioevo alla prima età moderna. In M. G. Muzzarelli, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo (p. 23-98). Torino, Italia: Paravia.
  • Ottaviani, M. G. (2001). Alcune riflessioni sulla statuizione tardomedievale. Reti Medievali.
  • Patrone, A. M. (1974). L'ascesa della borghesia nell'Italia comunale. Tratto da http://www.rm.unina.it/didattica/fonti/patrone/indice.htm#sez6
  • Pisetzky, R. L. (1978). Il costume e la moda nella società italiana. Milano: Einaudi ed.
  • Rossi, M. (2005). Polisemia di un concetto: la pace nel basso medioevo. Note di lettura . Reti Medievali.
  • Vecellio, C. (1598). Habiti antichi et moderni di tutto il Mondo di Cesare Vecellio. Venezia: Sessa.
  • Vecellio, C. (1664). Habiti antichi. Venezia: Damiano Zenaro (1590-1598 ca.).
  • Vecellio, C. (1849). Habiti antichi et moderni di tutto il mondo (IV ed.).

Internet

  • Treccani, E. (1931). Cascia - Enciclopedia Italiana. (AA.VV., A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/cascia_%28Enciclopedia-Italiana%29/
  • Treccani, E. (1932). Gamurra - Enciclopedia Italiana. (G. A. Scaravaglio, A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/gamurra_%28Enciclopedia-Italiana%29/
  • Treccani, E. (1933). Giornea - Enciclopedia Italiana. (G. A. Scaravaglio, A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/giornea_%28Enciclopedia-Italiana%29/
  • Treccani, E. (1935). Pellanda - Enciclopedia Italiana. (G. A. Scaravaglio, A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/pellanda_%28Enciclopedia-Italiana%29/
  • Treccani, E. (1936). Santa Rita da Cascia - Enciclopedia Italiana. (B. Paulucci, A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/rita-da-cascia-santa_%28Enciclopedia-Italiana%29/
  • Treccani, E. (1938). Cascia - Enciclopedia Italiana - I Appendice. (AA.VV., A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/cascia_res-470e7893-8b74-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-Italiana%29/
  • Treccani, E. (1959). Cascia - Enciclopedia dell' Arte Antica. (U. Ciotti, A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/cascia_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/
  • Treccani, E. (2016). Santa Rita da Cascia - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 . (L. Scaraffia, A cura di) Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/rita-da-cascia-santa_%28Dizionario-Biografico%29/
  • Treccani, V. (s.d.). Nitore. Tratto da http://www.treccani.it/vocabolario/nitore/

Note

[1] (Cuomo, 1997)

[2] Dal lat. gregarius, der. di grex gregis «gregge»; propr. «del gregge, che fa parte del gregge». Soldato semplice

[3] Colle Giacone fa parte del comune di Cascia, in provincia di Perugia

[4] (Cuomo, 1997) pp. 60-61

[5] Era costume usare al posto del cognome di oggi, la genealogia paterna

[6] Al di sotto dell’età minima era necessario il consenso del padre, del fratello carnale o di un parente in grado di tutelare la famiglia contro il rischio di ‘nozze colorate’, ovvero una unione ambigua e nociva all’autonomia dei nuclei famigliari, per tutelare la quale era stata codificata una sorta di endogamia politica. Lo scopo era anche impedire che gli equilibri della società casciana potessero risentire dei contraccolpi dell’assorbimento di una famiglia da parte di un’altra. Per i trasgressori erano persino previste pene pecuniarie di almeno cento libbre senza sconti.

[7] Gli Statuti suntuari casciani regolavano le spese per le nozze ponendo espliciti divieti al titolo De expensis non fiendis in nuptiis et sponsalibus. Libro III, Rubrica 16. (Cuomo, 1997) Note pp. 314-315 “Amore”.

[8] Cascia come tutte le città mercantili e corrotte nonostante l’intenso fervore religioso, nelle quali era facile l’accumulo della ricchezza in spregio alla povertà di un’alta percentuale della popolazione, tendeva a darsi un’apparenza di austerità contenendo la vistosità delle feste, dei banchetti, delle celebrazioni che non corrispondevano a occasioni di pubblico interesse.

[9] Lo scopo ufficiale era quello di imporre il risparmio alle famiglie, ma c’era dietro a questo rigore una sorta di compiacimento integralista per quella malintesa sublimazione della povertà che, esaltata talvolta con trascinante furono finiva spesso col degenerare nei lugubri eccessi dei penitenti.

[10] Dal lat. nitor -oris, der. di nitēre «splendere» Lucentezza, nitidezza. fig., chiarezza, eleganza.

[11] Oggi questo anello è stato riprodotto in copie odierne in oro o altri metalli per le coppie che si sposano.

[12] (Cuomo, 1997)

[13] Grossa frangia ornamentale all’orlo di un abito da evitare. Breviario casciano. (Cuomo, 1997)

[14] Da quod velles per fare riferimento a piccole cose che andavano ad aumentare la vanità femminile, una sorta di gingillo che portavano le donne da nulla.

[15] Regole per alcune anime divote

[16] La pellanda (o opelanda o anche pelarda) sembra fosse così chiamata perché foderata di pelli; tuttavia se essa trasse la sua origine dalla houppelande francese, fu poi veste tipicamente italiana, e durante i secoli XIV e XV fu comune agli uomini e alle donne, specie in Lombardia e nell'Italia settentrionale. Apparsa in Francia verso la metà del sec. XIV, rimane in voga sino alla fine del regno di Carlo VI (1422) nella sua forma primitiva: veste ampia, da portare sopra altre vesti, aperta davanti e spesso anche ai lati, con maniche larghe e lunghissime, e in genere ornata di ricami e foderata di pelliccia. (Treccani E. , Pellanda - Enciclopedia Italiana, 1935)

[17] Gamurra, (etim. incerta; ant. fr. chamarre; sp. Zamarra). Antica veste da donna, detta anche camora o zippa (Italia settentrionale) e zimarra (Venezia, sec. XVI). Nel Medioevo è per lo più ampia e lunga, aperta davanti sopra la tunica o il vestito, foderata di pelliccia o d'altra stoffa, guarnita di frange e di cordoni d'oro e d'argento, con o senza maniche. Mentre in Italia è vestito esclusivamente femminile, in Francia la chamarre è anche abito maschile, trasformazione della "pelanda" (houppelande) e del surcot. Attillata alla vita e composta di una sottana e di un corpetto o tagliata a foggia di una sopravveste intera, larga in fondo sopra la faldiglia o il vertigado, chiusa al collo da un collare di merletto o aperta su di un'ampia scollatura, la gamurra, attraverso varî mutamenti, rimane la veste tipica dei secoli XV-XVI. (Treccani E. , Gamurra - Enciclopedia Italiana, 1932)

[18] Su questo capo i termini volgari creano confusione. Per capire bene il taglio dell’abito Treccani fornisce alcune definizioni. Antica sopravveste militare che copriva il petto e il dorso del soldato nel XIV sec., in seguito adottata dagli uomini d'ogni condizione, divenne una specie di piccola dalmatica senza cintura, con i due lembi fermati alla vita sotto le braccia; poi, provvista di maniche aperte per lasciar passare quelle del vestito di sotto, si guarnì di gioielli, di galloni e di ricami, si foderò di pelliccia e di seta, e per il popolo, un poco più lunga di quella adottata dai nobili, fu confezionata in tela o in panno. La giornea fu abitualmente adottata per cavalcare, ornata di stemmi e d'insegne (giornea a divisa). Verso il 1450 la giornea era una casacca corta, aperta davanti con maniche aperte o anche chiuse al polso ma sempre molto larghe, e molto imbottita sulle spalle. Sopra la giornea si portavano catene d'oro a più giri e medaglioni. Negl'inventarî del 1400 si parla spesso anche di giornee di donna, sopravvesti o zimarre aperte davanti, o anche ai lati sotto le braccia, spesso con maniche di diverso colore e foderate di pelliccia, ornate di frange e di ricami. Sempre nei conti quattrocenteschi figurano "jorneuzze" come abbigliamento da bambini. La giornea scompare nella seconda metà del '400. Sembra, secondo Treccani che la giornea derivi dalla guarnacca nata sempre come veste maschile, veniva portata sopra altri abiti; era un indumento modesto e serio, foderata di pelliccia, la guarnacca nel Duecento era lunga fino ai piedi, con maniche a forma di mantello, a larghe aperture per le braccia; nel '300 la scollatura formava davanti due piccoli rovesci arrotondati e foderati di pelliccia. Molto spesso aveva il cappuccio attaccato; la parte superiore scendeva a formare le maniche, ed era sempre aperta dai due lati sotto le braccia. Adottata dalla nobiltà e dalla borghesia venne sostituita in Francia alla fine del ‘300 dal gardecorps e dal pelliccione, mentre rimase come mantello da pioggia per la gente del popolo. In Italia continuò invece sino al '500.

[19] (Cuomo, 1997) pp. 83-86

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